lunedì 1 dicembre 2008

Un contributo interessante

Proponiamo la lettura integrale dell’articolo ”Sostegno alla genitorialità. L’esperienza torinese di un gruppo di genitori adottivi con figli adolescenti” (pubblicato sulla rivista "Minori e giustizia" 3/2003)
Si tratta di un’interessante esperienza di lavoro di gruppo che ha coinvolto genitori adottivi e operatori sociali della provincia di Torino. Ė un articolo ricco di informazioni e di spunti di riflessione che potrebbero essere di stimolo anche per chi lavora sul nostro territorio.

Sostegno alla genitorialita'
di Annamaria Messana (Assistente sociale, referente Progetto Minori CISAP, Grugliasco -TO)
e Maria Teresa Niro (Psicologa, psicoterapeuta, gruppoanalista, TO)

Il disegno del bambino è già fatto, ma siamo noi a rifinirlo” (Una mamma adottiva)

1. Le ragioni del gruppo di genitori con figli adolescenti
Questo contributo si pone l’obiettivo di riflettere in merito ad un’esperienza di conduzione di un gruppo di genitori adottivi di adolescenti. Essa si è svolta all’interno del CISAP (Consorzio intercomunale servizi alla persona) della Provincia di Torino, che da diversi anni si occupa di adozione di bambini italiani e stranieri con attività di informazione e formazione alle famiglie, indagini di valutazione delle coppie aspiranti all’adozione, vigilanza e sostegno negli affidamenti preadottivi anche attraverso la conduzione di gruppi di genitori adottivi nel corso del primo anno di affidamento.
Lo strumento del gruppo offre ai genitori coinvolti la possibilità di una maggiore espressione e approfondimento dei propri problemi rispetto al rapporto duale con l'operatore. Le persone possono sentirsi "alla pari" con le altre componenti del gruppo e accettarne i suggerimenti e i consigli, mentre nel rapporto istituzionale l’operatore è vissuto come “esperto” al quale spesso si tende a delegare la soluzione. Inoltre il gruppo stimola un minor sentimento di vergogna, paura, sfiducia, isolamento, veicolando una maggiore capacità di empatia e di porsi nei panni degli altri, un aumento dell'autonomia, della fiducia in se stessi e dell'attivazione in proprio nella risoluzione dei problemi, un allargamento e potenziamento della cerchia delle risorse e della "rete di supporto" al compito educativo genitoriale (1).
Spesso le famiglie adottive, allo scioglimento del gruppo di sostegno nel primo anno di affidamento pre-adottivo oppure negli anni successivi, manifestavano, nei contatti col servizio sociale, il rimpianto e il dispiacere di non poter proseguire l’esperienza di confronto con gli altri genitori adottivi, durante la crescita dei loro figli. Pertanto è sembrata opportuna e interessante la costituzione di un gruppo di confronto e discussione tra genitori adottivi di ragazzi in età compresa tra gli undici e i diciotto anni, considerato anche che sia dall’esperienza professionale, sia dalla letteratura specifica, emergeva un aumento dei fattori di rischio di devianza e di dipendenza patologica da sostanze stupefacenti nelle famiglie con figli adottivi adolescenti.
Gli obiettivi proposti riguardavano sia l’area specifica dell’adozione sia quella dell’adolescenza. Nello specifico alla base del progetto vi era la prevenzione/riduzione rispetto ai comportamenti devianti e disturbati dei figli (uso di sostanze e abuso di alcolici, fughe da casa, piccoli reati…) e/o una maggiore capacità di affrontarli in modo costruttivo, stimolando successivamente la nascita e lo sviluppo di un gruppo di auto/mutuo aiuto, considerato strumento innovativo di sostegno alle famiglie in difficoltà, rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati nei servizi sociali istituzionali.
Il gruppo è stato pensato, strutturato e condotto da un’assistente sociale del Consorzio, con esperienza pluriennale nel campo dell’adozione e degli affidamenti familiari e da una consulente psicologa, con esperienza sia operativa sia di ricerca nell’ambito dell’adozione ed in particolare di figli adottivi adolescenti.

2. Le modalità di lavoro
Il primo passo operativo è stato quello di selezionare “sulla carta” un teorico numero di famiglie potenzialmente beneficiarie di tale intervento, a partire dall’archivio storico di tutte le famiglie conosciute dal servizio sociale in relazione all’adozione. È stata loro inviata una lettera d’invito, seguita da un colloquio telefonico a cura dell’assistente sociale che avrebbe condotto il gruppo, con cui si proponeva alla coppia un incontro congiunto con la assistente sociale e la psicologa, di presentazione dell’iniziativa e di prima conoscenza reciproca. Questo incontro conoscitivo ha anche avuto l’obiettivo di stabilire un “contratto” individuale di partecipazione al gruppo, attraverso il chiarimento delle principali regole di funzionamento dello stesso: continuità di partecipazione, segretezza e non-giudizio rispetto a quanto espresso dagli altri partecipanti, incontro individuale al termine dell’esperienza.
Il gruppo, condotto dall’assistente sociale e dalla psicologa, si è incontrato ogni quindici giorni, con sedute di un’ora e mezza, per la durata di un anno, da gennaio a dicembre 2001, per un totale di venti sedute. Le conduttrici hanno sempre cercato di riportare l’attenzione sui vissuti e sui sentimenti dei partecipanti, sottolineando i loro interventi e valorizzandoli, evitando l’interpretazione e la prevaricazione. Inizialmente i partecipanti si rivolgevano direttamente ed esclusivamente alle conduttrici, poi gradualmente hanno cominciato a parlarsi tra di loro rendendo sempre meno necessario l’intervento delle conduttrici, per cui il gruppo è divenuto più autonomo.
Le famiglie che hanno aderito al progetto hanno partecipato alle sedute in modo regolare e intenso, sia i padri sia le madri.
Alla fine del percorso di lavoro i partecipanti hanno espresso la motivazione ed il desiderio di continuare in modo autonomo “accompagnati” gradualmente dalle conduttrici verso la costituzione di un gruppo di auto-mutuo aiuto. Così gli incontri del 2002 hanno avuto una frequenza mensile e non più quindicinale, con una presenza bimestrale delle conduttrici.
Durante le sedute lo scambio e la partecipazione sono sempre stati produttivi, talvolta gli interventi erano centrati sul fare e sul concreto, altre più sui risvolti emotivi delle esperienze. I partecipanti hanno iniziato sin da subito a coinvolgersi attivamente, dapprima con un certo riserbo rispetto ai problemi ritenuti più “intimi” ed in seguito, man mano che il gruppo si rinforzava, con una sempre maggiore fiducia reciproca. Fiducia che ha consentito il passaggio da interventi di carattere generale sull’adozione, ad altri più centrati sui figli e sui “loro” problemi, fino ad arrivare ad una maggiore focalizzazione su di sé come genitori e come persone e ad una maggiore disponibilità ad affrontare temi anche dolorosi. Infatti, inizialmente il gruppo ha la funzione di conoscenza e scambio di informazioni con un livello comunicativo superficiale (livello di realtà) in cui il gruppo rappresenta la comunità, la società, l’opinione pubblica anche in merito alle tematiche inerenti l’adozione. Lentamente si arriva a un maggiore rispecchiamento e confronto anche su tematiche più profonde e delicate. Il gruppo diventa via via un contenitore di ansie e preoccupazioni relative allo sviluppo e alla crescita dei figli, che possono essere portate all’interno del gruppo ed elaborate insieme, producendo anche lievi cambiamenti e miglioramenti nella relazione genitori-figli.

3. Le fasi
Il cammino del gruppo è passato attraverso alcune fasi che abbiamo di seguito analizzato e che ci sembrano poter ricalcare le fasi (descritte ampliamente dalla letteratura e osservate nella prassi clinica) attraversate dalla famiglia adottiva dopo l’inserimento del bambino:
- conoscenza e confronto delle diversità;
- contatto emotivo e provocazioni;
- rispecchiamento;
- accettazione e cambiamento.

3.1. Prima fase: conoscenza e confronto delle diversità
La prima fase del gruppo è quella della conoscenza, dell’avvicinamento lento e graduale, che passa attraverso lo scambio di informazioni e la condivisione della storia della propria adozione. In questa prima fase tutte le coppie sottolineano l’assenza di problematicità: i figli stanno bene, la loro relazione è buona, non si sono mai verificati problemi. La tendenza è quella di un’eccessiva “normalizzazione” del fatto adottivo da parte dei genitori, con il rischio di non considerare l’evento adottivo come un “evento critico” nella storia dei loro figli e con il rischio di non riconoscere eventuali segnali di disagio. Le uniche difficoltà che possono essere nominate e affrontate (superficialmente) sono quelle scolastiche. Tutte le coppie affrontano il problema dello scarso investimento scolastico dei figli e del rendimento spesso poco sufficiente. In questo caso però la tendenza è quella di una eccessiva riconduzione della difficoltà all’adozione “si sa che tutti i figli adottivi vanno male a scuola” senza interrogarsi in modo critico e costruttivo sul significato individuale di tale difficoltà. Con molta fatica si conduce il gruppo verso l’individuazione di una posizione “terza” che abbia come obiettivo quello di domandarsi che significato possano avere certe cose, che segnali il proprio figlio sta inviando, cogliendo l’individualità e la diversità di ogni situazione.
Lo stesso processo di normalizzazione e assenza di problematicità si riscontra nelle prime fasi dell’inserimento del bambino adottivo in famiglia, in quello che viene definito “periodo idilliaco”, in cui prevalgono l’appagamento del sogno idealizzato sia per i genitori che per il bambino e l’adeguamento di quest’ultimo alla famiglia con l’appiattimento delle proprie caratteristiche e peculiarità. Anche nel gruppo il primo momento è “idilliaco”, corrispondente all’appagamento del bisogno portato da ogni famiglia di poter finalmente avviare un confronto ed avere un sostegno rispetto alla genitorialità “in questi anni ci siamo sentiti abbandonati, anche se non ci sono stati grandi problemi, avremmo comunque avuto bisogno di confrontarci con gli operatori e con altre coppie”,“quando abbiamo sentito la vostra telefonata che ci proponeva questo gruppo, ho pensato: finalmente si son fatti vivi!”
Nel gruppo lentamente vengono abbozzate, come se fossero germogli da cui poi può nascere una discussione ed un confronto se ci sarà il terreno sufficientemente fertile per consentirlo, le tematiche fondanti l’adozione: la differenza tra adozione nazionale ed internazionale, il vissuto del bambino rispetto all’abbandono, il vissuto dei genitori adottivi rispetto ai genitori biologici e alla terra d’origine, la diversità tra i figli adottivi e i figli biologici. Il termine “diversità” si ripete, incontro dopo incontro, lasciando trapelare il tema centrale che caratterizza sia l’adozione che il lavoro di gruppo. La diversità e l’alterità sono gli aspetti su cui si fonda la relazione genitoriale in genere ed in particolare quella adottiva che ha il compito di accogliere un figlio nato da altri e quindi ancor più differente, di amarlo e aiutarlo a crescere. Lo stesso vale per il bambino che partendo dalle proprie caratteristiche deve integrarsi e sentirsi parte della famiglia che non l’ha generato biologicamente.
Anche nel gruppo è importante saper accogliere e tollerare la diversità, renderla produttiva e costruttiva integrando aspetti personali e modalità relazionali differenti.

3.2. Seconda fase: contatto emotivo e provocazioni
Il gruppo lentamente arriva a sperimentare un clima di condivisione e di contatto emotivo che consente ai partecipanti di aprirsi con maggiore facilità e di narrare vicende più intime e personali.
Una coppia sente che è presente lo spazio per poter portare il dolore legato alla relazione disturbata con il proprio figlio, descrivendo la situazione di forte disagio psichico e sociale in cui egli si trova. L’esternazione di un forte problema crea ansia e preoccupazione all’interno del gruppo. Il fantasma che ogni coppia che adotta ha in mente, cioè il fallimento della relazione adottiva, viene portato in gruppo e presentato come reale. I genitori raccontano che presto L. verrà allontanato dalla famiglia e inserito in comunità, ed aggiungono, rabbiosamente, che vorrebbero non aver mai adottato, lasciando trapelare intensi sentimenti invidiosi nei confronti delle famiglie adottive “felici”. Il gruppo accoglie questo racconto oscillando tra una posizione giudicante ed una altamente comprensiva. Il clima emotivo è di preoccupazione e di turbamento per aver incontrato nella realtà il fantasma spesso immaginato. Tale comunicazione assume anche le forme della provocazione, inserendo un forte elemento di disturbo e problematicità in uno scenario, quello delle famiglie adottive, finora rappresentato come idilliaco.
Così come il bambino che arriva in adozione, dopo la prima fase di adeguamento passivo comincia a manifestare comportamenti provocatori e oppositivi per testare la tenuta della coppia, così anche il gruppo sta testando la sua tenuta, anche rispetto alla conduzione.
È una fase molto delicata per il gruppo che rischia di spaventarsi (proprio come i genitori adottivi di fronte alle prime manifestazioni aggressive dei figli) e di non saper reagire al turbamento. È necessario l’incoraggiamento e l’esplicitazione di tali dinamiche, anche gruppali, per permettere al gruppo di uscire da un’impasse pericolosa e per recuperare la fiducia e la capacità di contenimento.
Nella seduta successiva la coppia che ha rivelato il proprio “segreto” non si presenta, e il gruppo non può far altro che parlare dell’accaduto. Emergono sentimenti di distacco e diversificazione all’interno dei quali si cercano razionalmente motivazioni e giustificazioni per tale fallimento, alternando posizioni in cui tutta la “colpa” é attribuita al ragazzo (“L. è un ragazzo difficile, sarebbe andata male anche con un’altra famiglia.”), ad altre in cui è spostata sui genitori (“Loro hanno mancato di fermezza..”, “Non hanno stabilito rapporti gerarchici ed autorevoli ”, “E’ anche un problema di coppia, se uno dei due copre il figlio e si allea con lui contro l’altro…”). Le conduttrici cercano di portare il gruppo ad assumere una posizione terza, riflettendo sulla peculiarità di ogni famiglia, di ogni incontro, di ogni relazione, rimandando che non sempre può esserci un’unica e rassicurante spiegazione agli eventi. Si crea un clima empatico nei confronti della famiglia in difficoltà e seguono interventi maggiormente comprensivi: “… forse non c’è stato feeling tra i sigg.ri M. e il figlio. Ma il feeling va anche costruito…”, “… E’ come una storia, uno spettacolo con vari attori, a me sembra che nelle famiglie a volte ognuno racconta una storia diversa, ognuno recita per conto proprio.”

3.3. Terza fase: rispecchiamento
Il superamento di questo momento porta il gruppo a trovarsi in una dimensione altamente costruttiva, di scambio, condivisione, coesione, all’interno della quale si verificano le prime manifestazioni del rispecchiamento. “Attraverso l’interazione si ha sia il riconoscimento che la negazione degli aspetti del Sè riflessi negli altri e degli aspetti degli altri riflessi nel Sé…l’osservazione degli altri permette ai singoli di individuare più facilmente propri conflitti…” (2).
Tale processo avviene a più livelli. Il primo è quello gruppale: ci si riconosce nelle parole dell’altro e si comprende meglio un proprio vissuto o comportamento arricchendo la conoscenza di sé e della propria situazione. Poi vi è quello individuale e familiare che permette alle coppie di rispecchiarsi nei vissuti e nei sentimenti dei propri figli, riconoscendo e rivisitando i propri. Accade che la coppia ascoltando i vissuti di delusione e rabbia dei propri figli può riconoscere i propri, relativi alla sterilità e al fallimento del progetto procreativo. Così quando il figlio chiede “perché sono stato abbandonato?” la coppia non è più alla ricerca di una risposta che saturi ogni domanda e alleggerisca il proprio figlio ma, mettendosi in contatto con il proprio identico vissuto relativo alla sterilità che fece domandare loro “perché proprio a noi?”, si mette in ascolto, contiene, senza necessariamente “spiegare” e mitigare.
Il gruppo in questa fase comprende che l’adozione è un incontro di due mancanze e che il bisogno del bambino e della coppia non sono in opposizione. Il bisogno della coppia può così incontrarsi, senza essere negato, con quello del proprio figlio per attuare uno scambio intimo e profondo. Scambio che avviene anche in gruppo, dove possono essere raccontate le vicende relative alla sterilità, percorsi dolorosi e verità raggelanti. Si può riconoscere il “buco nero” delle origini dei propri figli, senza avere l’impellente necessità di colmare certe richieste, ma essendo lì ad ascoltarle e a comprenderle. Alcune famiglie hanno così riconosciuto il disagio dei figli offrendo anche la possibilità a questi di consultare uno specialista. Si è passati quindi dal “non avere problemi” al riconoscere e “prendersi carico” delle aree di disagio dei propri figli, tra le quali assume rilevanza quella delle origini.
Per l’adozione nazionale si tratta di un tema “scottante” che finalmente i genitori possono portare in gruppo ed essere pronti a trattare in modo sereno con i figli. Emergono narrazioni in cui figli riconoscono in personaggi famosi (divi della TV) i propri genitori naturali, altri in cui i ragazzi ricordano perfettamente luoghi e fatti lontani nel tempo. I genitori recuperano in gruppo i loro timori ed entrano in contatto con parti mai definitivamente sepolte: la paura di perdere il legame con il proprio figlio, la paura che il figlio li “abbandoni” ricongiungendosi con i propri genitori naturali. È difficile esplicitare queste paure, sembra che soltanto la propria espressione possa renderle palpabili e reali, ma è attraverso tale condivisione che ci si può liberare da sensi di colpa e di solitudine “allora non lo penso solo io”, si può recuperare il senso del legame con il proprio figlio “ma in fondo quei genitori là non sono i suoi veri genitori, lo hanno solo messo al mondo” confrontarsi con gli altri genitori permette di riconoscere le proprie paure e aumenta la capacità di dialogo con i figli: “quando E. mi ha vista tranquilla e disponibile a parlarne si è rasserenata”.
I genitori che hanno adottato un bambino proveniente dall’estero vivono in misura minore questo problema e possono, con il distacco di chi non è coinvolto, contribuire alla discussione riconoscendo dinamiche cortocircuitanti. Per loro il problema è l’integrazione dei figli nel gruppo dei pari, le relazioni amorose iniziate o non iniziate, il timore che i figli possano essere rifiutati perché diversi. Con l’adolescenza i ragazzi stranieri ritrovano il vecchio appuntamento con la diversità, spesso in modi drammatici, come quando la signora L. racconta che la figlia sedicenne ha conosciuto un ragazzo attraverso il telefonino e doveva incontrarlo, “poi però quando M. ha saputo che E. è di colore non è più voluto uscire con lei”. Anche in questo caso il gruppo riesce a placare le ansie e a separare i vissuti dei genitori da quelli dei figli. Come ha reagito E.? Che significato ha avuto per lei? È lo stesso che ha avuto per la mamma? A chi dà più preoccupazione la non integrazione? Chi teme davvero l’esclusione? Una mamma riferisce “Quando ho scoperto che gli amici di mio figlio lo chiamavano “cappuccino” mi sono preoccupata, poi lui mi ha detto che gli piace questo nome e ho capito che era un nomignolo affettuoso” .
La discussione permette ai genitori di riconoscere che spesso vivono certi avvenimenti in modo più doloroso dei figli, preoccupandosi molto di questioni che per i figli sono meno importanti. Un genitore si domanda: "ma perché le domande o curiosità degli altri sull'adozione ci feriscono?" Le risposte del gruppo riportano al tema della diversità, all’antico vissuto di discriminazione per la loro sterilità o difficoltà procreativa. Quindi, da una parte si riattivano vecchi sentimenti e dall'altra emerge il tentativo di proteggere i propri figli, percepiti come deboli e fragili, da possibili attacchi esterni.
La relazione genitori-figli appare spesso permeata dalla difficoltà dei genitori a percepire i figli come differenti, con propri pensieri, emozioni, affetti. Spesso i genitori adottivi tentano di azzerare le differenze e di omologarsi in una percezione di similarità con i propri figli, come se tentassero di riparare alla biologica e genetica diversità con una uguaglianza “emotiva” che ha anche la funzione di rinforzare il legame, percepito come debole e inconsapevolmente, preservare e proteggere il legame con i figli da attacchi e incursioni esterni, a volte eccedendo in comportamenti iperprotettivi o di eccessiva e difensiva chiusura al mondo esterno.
In questo scenario anche le richieste di autonomia e libertà avanzate dai figli, nel periodo adolescenziale, vengono trattate e descritte con ansietà. Per i genitori è doloroso immaginare o vivere la separazione dai propri figli, e questi ultimi vivono questa possibilità con manifestazioni di disagio. Alcuni cercano di autonomizzarsi in fretta mobilitando nei genitori vissuti di preoccupazione e angoscia che traducono in atteggiamenti eccessivamente severi e protettivi. Altri faticano ad allontanarsi dalla famiglia, perché più insicuri e fragili, hanno poche relazioni sociali e utilizzano la famiglia come rifugio difensivo. In questo secondo caso spesso i genitori colludono con il bisogno dei figli di rassicurazione sviluppando atteggiamenti eccessivamente protettivi che non consentono ai ragazzi di evolvere e sperimentare nuove esperienze.
Sempre rispetto al tema del distacco e dell’autonomia, diverse coppie ricordano in gruppo le difficoltà sperimentate con i loro figli quando li inserirono al nido o alla scuola materna, altre coppie descrivono i problemi dei figli legati al sonno, altri ancora della continua ricerca di aiuto che i figli esigono dai genitori per i compiti o per altre attività scolastiche. Il gruppo rende visibili queste dinamiche familiari e aiuta i genitori a tentare un processo di differenziazione, recuperando le proprie parti e differenziandole da quelle dei propri figli, tollerando la paura di un allontanamento affettivo ed emotivo, esprimendo fiducia nella solidità del loro legame con i figli.

3.4. Quarta fase: accettazione (e cambiamento)
La maggiore conoscenza tra i membri del gruppo favorisce la possibilità che l’altro venga accettato e tollerato nei suoi aspetti di diversità con il conseguente consolidamento della coesione del gruppo. Accade così che alcune coppie che per la loro storia differente e faticosa da accettare erano rimaste sullo sfondo, trovano lo spazio per poter emergere e raccontare la propria esperienza. La diversità ora non spaventa ma diventa arricchente ed interessante. Questa sembra essere la sfida della genitorialità: riconoscere, accogliere ed accettare la differenza del proprio figlio, arrivando ad integrare ed apprezzare anche quei lati oscuri, negativi e diversi, che talvolta le famiglie adottive stigmatizzano e riconducono alla diversità biologica.
Il gruppo si avvia al termine nel periodo in cui si è verificata la strage delle Torri Gemelle. In una seduta una mamma parlando della strage verbalizza che teme che con il passare del tempo questa tragedia venga dimenticata, perché non se ne parla più. Si rimanda che questa voce sembra portare anche un vissuto comune a tutti i membri del gruppo, che in questo momento di chiusura e di perdita, temono che ci si possa dimenticare l’uno dell’altro. Si invitano quindi i genitori a poter esprimere e condividere con il gruppo i sentimenti negativi legati a questa chiusura, sottolineando l’importanza di poter “nominare” questi sentimenti, riconoscerli e contenerli. Il gruppo svolge così anche una funzione di “palestra” nella quale si “apprende dall’esperienza” una modalità di relazionarsi e di parlare dei propri vissuti, che viene poi trasferita nella propria famiglia. Le coppie infatti spontaneamente illustrano esempi di cambiamenti e miglioramenti nella relazione con i figli, cambiamenti che nascono anche dall’aver riconosciuto le proprie difficoltà e aver creato un clima favorevole al dialogo e all’incontro con i figli “mi sembrava irrisolvibile la chiusura di I., noi invece ci siamo relazionati con lui in modo diverso e lui si è aperto”, “nella relazione con nostra figlia prima parlavamo più di cosa aveva fatto o era successo, ora invece ci preoccupiamo più di chiederle come sta”, “A. ha trovato un terreno fertile per parlarci dei suoi problemi anche per la nostra diversa disposizione in seguito a questi incontri di gruppo”,“siamo passati dal correggerlo al comprenderlo”.

4. Lo stato di salute della famiglia adottiva
Questa esperienza ci sembra preziosa perché ci ha dato l’opportunità, assai rara, di realizzare un follow up sullo stato di salute delle famiglie adottive. Inoltre ci ha permesso di riflettere su diversi ambiti in cui gli operatori psico-sociali sono coinvolti nella complessa tematica adottiva.
In particolare ci pare utile la riflessione su alcuni punti.

4.1. La funzione di sostegno e di vigilanza
Il gruppo sembra essere lo strumento indicato per attuare una funzione di sostegno e vigilanza nella fase post- adottiva delle famiglie perché facilita il confronto, la condivisione, il reciproco aiuto. La maggior parte dei servizi territoriali, infatti, utilizza già incontri mensili di gruppo nell’anno di affidamento preadottivo, per espletare i compiti istituzionalmente previsti. Alla luce dell’esperienza effettuata ci sembra di poter affermare che la quindicinalità degli incontri favorisca maggiormente la conoscenza, la disponibilità all’approfondimento e alla condivisione, anche di aspetti più profondi ed intimi. Il gruppo diventa via via un appuntamento atteso con l’aspettativa che si possa riflettere su vicende e pensieri nati in famiglia, certi che insieme si possa giungere ad un’elaborazione e ad una maggiore comprensione. Le coppie si sentono così accompagnate e supportate nel loro ruolo genitoriale, sapendo di poter contare costantemente su uno spazio di accoglienza e confronto. La continuità e la frequenza degli incontri, protratta per un anno, consente al gruppo di costituire una coesione che permette ai membri di sentire fiducia, comprensione, condivisione al punto da poter anche “scoprire” le zone d’ombra o di pericolo.
Il supporto successivo all’adozione, realizzato con lo strumento del gruppo, permette alla coppia di relazionarsi con altre persone che condividono la stessa esperienze, offre loro la possibilità di ricevere aiuto ma anche di utilizzare e sviluppare le proprie risorse per aiutare gli altri. Questo dispiegamento e riconoscimento delle proprie risorse è un importante motivo di innalzamento dell’autostima e della conoscenza di sé, necessari nella relazione con i figli. La dimensione del gruppo, inoltre, mitiga la sensazione di essere osservati, valutati e giudicati, favorendo invece la percezione dello scambio e del confronto tra “pari”.
Infine, la conduzione, affidata ad un’assistente sociale e ad una psicologa, ci sembra un suggerimento utile, perché offre la possibilità di ampliamento, diversificazione ed integrazione di aspetti psicologici e sociali presenti nella tematica adottiva, possibilità ritenuta necessaria anche nelle teorie e nelle prassi dei servizi sociali e di psicologia, dove l’indagine di valutazione è affidata a queste due professionalità.
Pensiamo che tale esperienza possa essere spunto di riflessione anche per gli enti autorizzati che, con la nuova legge, si affiancano all’ente pubblico nel compito di sostenere le nuove famiglie adottive. L’ente autorizzato rappresenta già, per la coppia che adotta un bambino straniero, un riferimento ed un contenitore e, se offrisse anche la possibilità di incontri di gruppo post-adozione, potrebbe consentire un sostegno ed una condivisione che nel nostro caso si è rivelata proficua e fautrice di importanti cambiamenti.

4.2. L’emergere dei vissuti dei genitori adottivi
Questa esperienza ci ha permesso di aprire una finestra sui vissuti dei genitori adottivi, su come questi, a distanza di anni, vivono “l’avventura” adottiva, e su come e se la loro percezione dell’esperienza si sia modificata. Inoltre ci ha offerto la possibilità di completare la conoscenza delle dinamiche relazionali delle famiglie adottive, iniziata da una delle scriventi con la ricerca effettuata sulla costruzione dell’identità dei figli adottivi adolescenti (3). Infatti le ipotesi allora avanzate, inerenti l’evoluzione del legame genitori-figli in adolescenza, vengono confermate dalle verbalizzazioni del gruppo di genitori.
In particolare emerge che l’adolescenza dei propri figli porta con sé tematiche e vissuti relativi alla sessualità e alla procreazione che possono far riaffiorare nei genitori adottivi eventuali problemi irrisolti in tali aree. Ad alcune coppie è infatti accaduto di provare sentimenti invidiosi, per lo più inconsci, rispetto alla sessualità dirompente dell’adolescente e alla sua recente capacità di procreare, mettendo poi in atto comportamenti eccessivamente proibitivi o limitanti.
Inoltre viene confermata l’ipotesi che i genitori adottivi manifestino un eccesso di iperprotezione nei confronti dei figli, limitando spesso la loro libertà e autonomia, per paura della perdita del legame con essi. Tale legame è infatti vissuto come più debole e quindi fragile, in virtù della mancanza del “collante” biologico, al punto che a volte ogni investimento dei figli nei confronti del sociale e di altre persone viene sentito come minaccioso rispetto ad un legame che temono possa sciogliersi. I genitori diventano consapevoli di queste paure, riconoscono le loro reazioni al distacco e alla separazione dai figli, anche grazie al manifestarsi di tali vissuti nell’hic et nunc del lavoro di gruppo. Ci riferiamo al momento in cui, nel corso di una seduta un genitore chiede “perché non facciamo venire anche i nostri figli al gruppo?” interrogandosi su come questi potessero vivere quella che viene definita “esclusione”. Emerge la difficoltà di questi genitori a strutturare dei chiari confini tra loro ed i figli, ad attuare delle sane separazioni, evidenziate dal timore (il loro evidentemente) proiettato nei figli, di essere esclusi da dimensioni gruppali e quindi sociali nelle quali i figli possono coinvolgersi. Una coppia ha infatti smesso di partecipare al gruppo anche perché il figlio viveva male questa loro esperienza ed in particolare la possibilità che loro parlassero in gruppo di lui e dei suoi problemi.

4.3 Il gruppo come verifica delle prognosi di coppia
L’esperienza ci ha fatto riflettere ancora una volta sull’importanza della valutazione delle coppie, individuando meglio le variabili centrali da indagare per una prognosi a lungo termine. Ci riferiamo in particolare a tali aree:
il tipo di comunicazione all’interno della coppia, la capacità di parlare dei sentimenti e delle emozioni che rivela la capacità che i futuri genitori hanno di affrontare queste dimensioni con i figli, stimolando in loro la possibilità di attuare una comunicazione più profonda ed intima;
- il vissuto relativo alla sterilità, come diversità, indicatore della capacità di tollerare il sentimento di diversità espresso dal loro figlio in relazione all’abbandono e all’adozione;
- la relazione di coppia nei termini di fusionalità o distacco. Le famiglie del nostro gruppo che presentano adozioni più difficili sono caratterizzate o da un’eccessiva fusionalità, al punto che il figlio si è sempre sentito un terzo ed “intruso” nella coppia, oppure da troppa distanza che ha permesso al figlio di allearsi con un genitore nella svalutazione dell’altro;
- le aspettative sull’adozione. Quando si riscontra un’aspettativa salvifica e un’idealizzazione dell’adozione, si può correre il rischio che la coppia strutturi un desiderio di gratitudine che svaluta il figlio e crea enormi problemi se questo presenterà delle difficoltà nel percorso di crescita, perché verranno percepite come attacchi al proprio impegno e mancanza di riconoscenza;
- i sentimenti nei confronti dei genitori naturali, in quanto la posizione non giudicante favorisce la comunicazione all’interno della famiglia su possibili desideri dei figli di conoscere la propria storia. Se l’atteggiamento è invece giudicante, il figlio prova o sentimenti di rifiuto con svalutazione di sé e della propria storia, o sentimenti di idealizzazione nei confronti dei genitori naturali, con un intenso desiderio di conoscere la propria storia e talvolta i genitori stessi, desiderio che può mantenere segreto, strutturando una chiusura relazionale e comunicativa o rivelare provocatoriamente alimentando i propri vissuti di colpa e generando timori di “abbandono” nei genitori.

4.4. Il gruppo come risposta ad un bisogno
Infine, l’elemento più importante è quello di aver dato una risposta al bisogno latente di queste famiglie di attuare un confronto e di sostenersi vicendevolmente. La verifica con ogni coppia, al termine del lavoro ci ha permesso di ritenere raggiunti gli obiettivi alla base di questo progetto.
Nel corso di questi colloqui individuali le coppie hanno espresso spontaneamente vissuti positivi rispetto al lavoro di gruppo: “…mi è servito perché ho preso spunto da cose dette da altri e ho provato ad applicarle…”, “…ho iniziato a vedere i problemi con un’ottica diversa…”, “…rispetto a prima ho meno paure…”, “…mi ha fatto piacere il clima di confidenza che si è creato, come se ci fossimo sempre conosciuti…”, “…prima avevamo più facilità a trovare i problemi in nostro figlio, ora li cerchiamo anche in noi…”.
Tali verbalizzazioni ci hanno trasmesso in modo concreto ed immediato l’utilità di questo lavoro, che speriamo possa essere attuato anche in altre aree territoriali con esiti altrettanto positivi.

NOTE
(1) Sul metodo formativo della conduzione di gruppi si veda P.R. Silverman, I gruppi di mutuo aiuto, Erickson, Trento, 1993; D. Napolitani, Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino, 1987; Animazione Sociale Università (a cura di), I gruppi di auto aiuto, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996.
(2) S.H. Foulkes, Introduzione alla psicoterapia psicoanalitica, Edizioni Universitarie Romane, Roma, 1991.
(3) Cfr. M. Farri Monaco e M. T. Niro, Adolescenza ed adozione: un’Odissea verso l’identità, Centro Scientifico Editore, Torino, 1999.

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