martedì 7 aprile 2009

Adozione e apprendimento scolastico



La rivista "Richard e Piggle" n.1-2009 ha recentemente pubblicato il testo della conferenza delle dottoresse C. Artoni Schlesinger e P. Gatti tenutasi a Lugano il 12 aprile 2008, in occasione della giornata di studio organizzata dall'associazione CHABA e da noi sul tema Adozione e apprendimento. Un problema scottante che riguarda molti figli adottivi
( vai a "Presentazione" ).
Eccovi il testo.


CLAUDIA ARTONI SCHLESINGER e PATRIZIA GATTI
Adozione e apprendimento scolastico


I genitori pongono spesso agli 'esperti' un quesito su un problema molto diffuso tra i bambini adottivi, ma non facile da affrontare e tanto meno da risolvere: quello delle difficoltà scolastiche che questi figli particolari trovano sul loro cammino.
Vorrebbero sapere come comportarsi e, se esistono, avere ricette già pronte da applicare più o meno automaticamente e magicamente.
É per loro una grande delusione trovarsi di fronte a cosiddetti esperti che rispondono di non avere soluzioni rapide e precostituite. La risposta non può che essere, almeno per la nostra esperienza, che ci sono i singoli casi che vanno affrontati nella loro particolarità, sperando di trovare una strada per avviare un diverso e più fruttuoso processo di crescita interna che permetta anche un migliore apprendimento.
D'altra parte per noi che ce ne occupiamo è esperienza comune quella di constatare che spesso quello che vale per un bambino o un adolescente non vale per un altro e che ogni situazione richiede attenzione, studio e fantasia, pensiamo proprio fantasia, particolari. E' la fantasia che suggerisce pensieri nuovi. Nel dire questo pensiamo a Bion che raccomanda di non avere paura dei pensieri selvatici.(1)
Non si può quindi fare un discorso generale, ma affrontare il problema attraverso la riflessione su casi singoli facendoci aiutare anche dalla grande letteratura non psicoanalitica.
David Grossman, in un suo libro su un bambino particolare, fa dire a un suo personaggio (una signora facente per il bambino funzioni di madre), che sta parlando con l'insegnante del suo pupillo:
"Forse non tutti [i bambini] sono adatti all'inquadramento della scuola! Ci sono persone rotonde, mia cara signora, ci sono bambini a forma, diciamo, di triangolo, perché no, e ci sono... ci sono bambini a zigzag!".(2)
I bambini adottivi sono veramente bambini a zigzag. I grandi scrittori spesso hanno intuizioni e modo dì rappresentarle molto più efficaci di quelle di qualsiasi studioso. Noi nel nostro lavoro siamo dei pazienti ricercatori che si sforzano di capire come sono fatti i bambini con le loro diversità e difficoltà.
Al ricercatore spetta il compito di capire e cercare appunto di spiegare il significato di espressioni e immagini così pregnanti come quella di Grossman citata sopra. Abbiamo 'adottato' questo modo di rappresentare un bambino per parlare dei bambini adottivi e della scuola.
Perché a zigzag? Perché per essere adottati hanno dovuto percorrere nella realtà e nel mondo interno, fuori e dentro se stessi quindi, un percorso non lineare dalla nascita alle varie fasi di sviluppo che per loro sono esperienze che quasi sempre non determinano memorie riconducibili alla memoria esplicita o autobiografica, ma si depositano nell'inconscio non rimosso (3) riemergendo eventualmente in immagini frammentate difficilissime da riunire in un discorso che abbia il significato di una storia della propria vita. Parliamo infatti di un certo tipo di bambini di fronte ai quali si rimane spesso sconcertati e confusi nella difficoltà di comprendere le loro comunicazioni. Bambini che fin dall'inizio della vita scolastica presentano inibizioni nell'uso delle capacità intellettuali, quasi sempre peraltro presenti, con conseguenti difficoltà nell'apprendimento.
Per tentare di spiegare questo problema così largamente diffuso tra i bambini di cui ci occupiamo, si sono avanzate varie ipotesi: da quella più semplice e sbrigativa che si può riassumere nella frase di un padre che, parlando del figlio e dei suoi eterni problemi scolastici, affermava: "Credo che proprio non ce la faccia" e così liquidava il problema attribuendolo a una supposta scarsità di dotazione mentale, senza tentare una maggiore e diversa comprensione del problema; a quelle orientate invece a trovare sempre problemi psicologici legati all'adozione per spiegare qualsiasi cosa.
Purtroppo questo succede non poche volte anche a scuola, col risultato di ghettizzare i bambini in difficoltà.
La tentazione di attribuire ogni difficoltà a un'origine emotiva dovuta alla storia particolare dei bimbi, lascia poco spazio al pensiero che porta alla comprensione del nuovo, soprattutto se il nuovo è un bambino diverso, a zig-zag appunto.
Nessuno dei sostenitori delle su citate posizioni tiene presente il fatto, oggi ben riconosciuto e accettato dalle neuroscienze, che il cervello dell'uomo è fatto di reti neuronali estremamente plastiche, in continuo cambiamento.
La combinazione di una diversità genetica, di una diversità di esperienze di vita, e di una non trascurabile componente di mere casualità in cui tutti inevitabilmente incorriamo, fa del cervello di ciascuno di noi un organo irripetibile.
E quindi anche per questi bambini particolari non è possibile parlare di una situazione psicologica statica che li caratterizzerebbe dalle origini e sarebbe la causa immodificabile delle difficoltà di apprendimento e inserimento. Anche nel loro caso non si può che pensare che la persona è il risultato del complesso processo che abbiamo descritto prima. Non è quindi solo importante l'ambiente originario, ma anche quello nel quale il bambino ha vissuto e vive ora.
La realtà è poi molto variegata per cui il singolo è sempre un unicum. Infatti se è vero che molti bambini adottati hanno gravi problemi di apprendimento è anche vero che altri ne hanno di ben minori, anche se le storie sembrano simili e spiegare i differenti risultati non è facile.
Per affrontare meglio il problema abbiamo pensato di illustrare e commentare qualche caso clinico di cui ci siamo occupate in tempi diversi.
Sono appunto storie di bambini a zigzag che obbligano a pensare secondo criteri non consueti per cercare di capire meglio le difficoltà che presentano.
II nostro intento in questo lavoro è di provare a mostrare che, per continuare a utilizzare la metafora di Grossman, non si può far diventare diritto quello che non lo è, ma si può cercare di capire la comunicazione sottesa del paziente per trovare soluzioni alternative, anche non consuete, che possano eventualmente attenuare le loro difficoltà o quanto meno impostare strade nuove per arrivare a migliorare la situazione.
Sappiamo, e non deve essere dimenticato, che tutti i bambini apprendono, ma non tutti hanno gli stessi tempi e le stesse dotazioni intellettuali.
Non è possibile pensare che un bambino nato in ambienti culturali differenti, dove spesso è vissuto per lunghi periodi sentendo parlare lingue diverse, abbia la stessa rapidità di comprensione di un altro abituato da sempre alla lingua del paese in cui vive. Il bimbo adottato, portato, senza averlo chiesto, in un paese diverso, spesso lontanissimo dal proprio, si ritrova a dover affrontare le difficoltà di un contesto linguistico totalmente differente.
Magari, col tempo, una volta cresciuto, questa nuova persona mostrerà anche capacità superiori rispetto ad altri, ma devono essergli concessi, come sottolineavamo, i suoi tempi e le sue strategie di apprendimento.
Pensiamo quindi che le prime difficoltà di cui raramente ci si occupa siano costituite dal cambiamento di ambiente a cui il bambino è sottoposto. Cambiare ambiente significa essere immessi in un mondo completamente nuovo, dove diversi sono gli odori, i rumori,
i colori, la musica e, nel caso dei bambini che arrivano da altri paesi, come già sottolineavamo, anche l'ambiente linguistico.
Tutto ciò è un'importante parte costitutiva del trauma che accompagna i bambini che vengono avviati all'adozione.

Problemi legati alla lingua
Per i bambini adottati ogni difficoltà di comprensione anche solo di una parola difficile è solo la conferma della loro diversità vissuta come inferiorità. E tutto ciò è fonte di frustrazione.
Sappiamo che giungere a tollerare la frustrazione (e nel caso dell'apprendimento la prima frustrazione sta nel non capire, non riuscire ad accettare di non sapere) è essenziale per lo sviluppo del pensiero. Il bambino che tenta di sfuggirla in ogni modo, finisce per evitare anche di pensare, provocando l'inibizione del pieno utilizzo delle sue capacità mentali. Intendiamo dire che evitando di pensare evita, per ricordare Bion e il suo insegnamento, di utilizzare l'esperienza per apprendere. Poter pensare all'insuccesso potrebbe indurlo a cercare soluzioni diverse al problema non risolto, per evitare altre frustrazioni dolorose.
Gli effetti della fuga dalla frustrazione possono essere devastanti: si può andare da un iniziale apparente congelamento di ogni facoltà di pensiero a un'incapacità generalizzata ad apprendere. Imparare comporta il riconoscimento di non sapere, la dipendenza da qualcuno che già sa ed un graduale ricevere ed assimilare, così come il crescere della personalità può solo avvenire attraverso faticosi passaggi graduali. (Vaciago Smith, 1986).

Giacomo e i muri di parole
Giacomo viene da un paese dell'Est, ora ha 9 anni, ne aveva 2 quando fu adottato.
Ai test cognitivi risulta nella norma, anche se ha delle cadute di attenzione e concentrazione in gran parte legate al non tollerare di non sapere, di non essere all'altezza, che lo porta a rinunciare al tentativo di risolvere il problema che gli viene posto. In questo modo evita il confronto con gli altri. Ha il sostegno a scuola, ma le difficoltà di apprendimento si manifestano soprattutto a livello di logica e matematica.
Colpisce il suo modo di scrivere, molto simile a quello dei dislessici pur non essendolo. Giacomo scrive esclusivamente in stampatello senza lasciare spazi tra le parole.
Il risultato è un muro di lettere dove viene completamente persa la possibilità di distinguere le parole l'una dall'altra, non solo, ma anche il ritmo della frase e quindi il significato di ciò che è scritto. Ogni connessione è eliminata insieme alla possibilità di cogliere eventuali emozioni che lo scritto trasmetta. Non c'è possibilità di distinguere ciò che è legato da ciò che è separato.
Questi modi di scrivere ci hanno suggerito l'ipotesi che i bambini che lo adottano abbiano vissuto il primo periodo della vita in un ambiente sfavorevole al costituirsi del senso del legame e, quindi, della separatezza.
Abbiamo trovato interessante, per ciò che riguarda la costituzione dei senso non solo del suono, ma anche del ritmo e quindi degli intervalli, il seguente passaggio di Di Benedetto ("Prima della parola", 2000, pp. 56 ss.): "Ciascuno di noi, nel comunicare con la parola e con il corpo sviluppa un suo specifico linguaggio sonoro, suonando se stesso e risuonando al contatto con il proprio ambiente. Ogni essere umano suona il suo strumento vocale, per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Segnala la parte nonancora-simbolizzata dell'esperienza psichica attraverso la vocalità, prima che giunga a essere detta. Sviluppa un suo codice sonoro per segnalare qualcosa di più del puro e semplice messaggio linguistico. Lancia segnali musicali, soprattutto ritmici, in attesa che altri li raccolga e stabilisca con lui un'intesa pre-linguistica paragonabile all'accordo che si realizza in una danza".
E' così che possiamo supporre si formi il primo sostrato del linguaggio che unisce il neonato alla madre. Tutto ciò viene perduto dal neonato bambino spostato dal suo ambiente originario.
Perchè è poi di qui che nasce il senso della ritmicità che segna l'assenza e la presenza dell'oggetto che interviene oppure no con la risposta adeguata.
II modo di scrivere a muro rimanda all'idea di una separatezza impossibile, perché è impossibile distinguere tra sé e l'altro. L'altro non è pensabile come entità separata e quindi non è conoscibile. Tutto è confuso in un magma indistinto dove non esistono differenze.
Sappiamo che molti di questi bambini vengono lasciati per mesi e anni nei loro lettini, se ne hanno uno, con un biberon accanto e senza una presenza adulta che segni il momento della poppata separato da quella del riposo.
Lo scrivere a muro l'abbiamo incontrato più volte nell' esperienza clinica con bambini adottati. La nostra ipotesi, come abbiamo sottolieato prima, è che metta in evidenza un problema nell'area della separazione portando alla luce il suo legame col trauma originario dell'abbandono.
Ci chiediamo come sia possibile pretendere che i meccanismi preposti all'apprendimento funzionino regolarmente in mancanza della costituzione di legami affettivi fondamentali che sappiamo essere alla base di ogni sviluppo regolare.
Eppure alcuni di questi bambini apprendono, come avessero dentro di sé una forza, una struttura particolare (una dotazione innata?) che permette loro di utilizzare al meglio le situazioni favorevoli che la vita originaria prima e l'adozione poi, offre loro. Possiamo dire che, essendo ogni essere umano un unicum che si realizza come persona attraverso le varie esperienze di vita, anche negative, che attraversa, abbia anche capacità personali che lo rendono più o meno capace di utilizzare anche il minimo positivo che lo sfiora nelle sue varie vicende. Ci mancano le osservazioni che vorremmo più approfondite sulla vita di questi bambini nel loro travagliato primo periodo di esistenza. Possiamo solo constatare che in alcuni casi il risultato dello sviluppo non è catastrofico come sarebbe logico attendersi. Al contrario situazioni apparentemente più favorevoli non sono tali da far sì che i bambini siano più forti e dotati davanti alle difficoltà della crescita.
Nei bambini del muro di scrittura sembra che non ci sia la possibilità di una rappresentazione mentale di ciò che significa separarsi. L'abbandono originario determina solo il senso di un continuum senza pause e senza possibilità di comprensione. È' il caso ad esempio di Irina (10 anni), ucraina, nata prematura e più volte ospedalizzata nei suoi primi mesi di vita, che viene adottata a un anno.
Bambina intelligente, con buone prestazioni scolastiche, salvo nell'aritmetica e, in particolare (e forse non è un caso) nelle divisioni.(4)
Irina è una bella bambina dai lineamenti dolci e perfetti, che contrastano con la sua espressione sempre molto dura e distante.
Si definisce "la specialista del freddo" perché proviene da fredde e lontane terre del nord. Tale espressione sembra ben rappresentare anche il freddo della sua nascita prematura, dell'incubatrice, delle cure intrusive e metalliche.
Il freddo rende comprensibile anche l'idea del suo apparire irraggiungibile, chiusa nel suo mondo di ghiaccio.
Ci è capitato spesso, pensando a lei, di ritornare con la mente alla favola di H. C. Andersen "La regina della neve" dove un bambino viene trafitto al cuore e all'occhio da
due schegge di uno specchio fatato. Si sente gelare e non prova più niente, dimentica la sua vita passata e da quel momento cambia diventando scontroso ed arrabbiato. Racconta Andersen:
"Kay abitava nel castello [della Regina della neve], un castello fatto di turbini di vento gelati. Là dentro non penetravano mai l'allegria e il calore di un sorriso. Tutto era gelido, immobile, vuoto e freddo. Anche lui era gelato, freddo il suo cuore e cereo il suo viso, ma non lo sapeva: aveva dimenticato ogni cosa e la Regina gli aveva rubato ogni ricordo."
Un giorno Irina chiede alla sua terapeuta se può scrivere una lettera per la mamma e il papà adottivi, alla fine la mostra alla sua dottoressa che prova un moto di sorpresa e stupore: ecco di nuovo il muro di lettere senza intervalli!
I muri dei bambini adottivi, che abbiamo chiamato anche il muro dell'ottusità emotiva proprio per la evidente mancanza da parte di questi bimbi di comprensione e di espressione delle emozioni, che pure si colgono come chiare presenze nel campo analitico.
Illustreremo di seguito un caso che coinvolge non solo il bambino adottivo in terapia, ma anche i genitori e i terapeuti, proprio a dimostrazione del fatto che possono essere presenti nel campo analitico appunto forti componenti emotive non riconosciute, ma capaci di creare turbolenze nei rapporti familiari.

Genitori e figlio: tre muri diversi di non comprensione e non comunicazione
Nella situazione clinica che illustreremo qui di seguito si parlerà ancora di muri di non comprensione che hanno la particolarità di appartenere ai diversi membri della famiglia con contenuti diversi, ma tali da intrecciarsi in modo da inibire la comunicazione affettiva necessaria per il buon funzionamento della famiglia.
Ci è parso interessante tentare una riflessione sul caso, perché ha coinvolto, come abbiamo già accennato sopra, non solo i componenti del nucleo familiare, ma anche le analiste che si occupano del caso. Una di noi segue infatti i genitori, l'altra il bambino. Tra le colleghe lo scambio di pensiero è ed è sempre stato costante.
Filippo è un bel bambino di 8 anni e mezzo di origine italiana, intelligente e con capacità intuitive e di insight non comuni.
Le sue difficoltà scolastiche sono legate soprattutto al comportamento, alla sua incapacità di contenersi e di controllare l'aggressività e quindi di riuscire a stare insieme agli altri bambini anche in classe. Non sopporta le critiche, può cancellare e strappare tutto quello che ha scritto sul quaderno se gli sembra che non corrisponda alle sue aspettative. E davanti alla frustrazione diventa aggressivo e intrattabile.
Pensa che gli altri siano bravi e lui no, perché è diverso, è un bambino abbandonato.
Da un po' di tempo in seduta dopo qualche parola della sua terapeuta le chiede "cosa vuoi dire?" oppure afferma "non ho capito".
Non è un bambino dal linguaggio povero, tutt'altro. Quando la terapeuta cerca di capire meglio cosa significhi questo suo non capire e gli chiede di spiegarglielo meglio, perché anche lei non capisce cosa lui non riesca a comprendere, risponde in modo sorprendente: "è che non capisco il concetto".
Quale può essere il concetto che Filippo non capisce? È il bambino che già anni prima (aveva solo cinque anni) aveva detto "come è possibile che una mamma ti tiene 9 mesi nella pancia e poi ti abbandona così !!!"
E' questo il concetto che non può capire. Come si possa abbandonare così un bambino che si è portato nella pancia per nove mesi. E questa non comprensione fondamentale si estende anche alla comprensione delle 'parole' della terapeuta, della maestra, dei genitori. Tutte le parole diventano prive di senso se manca il sapere delle proprie origini. E' un nuovo muro che ci riporta al muro di lettere incomprensibili, dove è difficile ritrovare il significato delle singole parole e il senso del narrare.
Le terapeute si raccontano questo flash dell'analisi di Filippo.
La prima reazione è stata di meraviglia e poi di molti pensieri e domande. Come è possibile che un bambino capace di formulare una frase in cui afferma di non capire il concetto, possa dire di non capire? E' vero che parla di concetto, ossia del significato che va al di là delle parole che il concetto contiene, ma non sempre è una conoscenza che può essere data per scontata. Ma quale è il concetto che non capisce veramente Filippo? Non le parole quindi, ma il significato che è nascosto in quelle parole che afferma di non capire. Solo che la mancanza di chiarezza è tale anche per chi lo ascolta, che non riesce a capire a sua volta cosa Filippo intenda dicendo "non capisco il concetto".
Dopo un pomeriggio occupato anche nell'ascolto della musica, la terapeuta che segue i genitori si accorge di continuare a pensare alla frase di Filippo.
Le diventa improvvisamente evidente il collegamento con il padre che dice del rapporto col figlio: "Ogni tanto, parlandogli, mi trovo come davanti a un muro, non riesco a farmi capire".
Il padre viene anche lui da una storia molto dolorosa. Quando aveva solo 13 anni, suo padre, a cui era legatissimo e che era sempre stato con lui affettuoso e grande amico, colpito da un grave ictus, non gli parlava più, era come un muro.
Ma c'è molto di più: la mamma, essendo anche lei una figlia adottiva, dopo un periodo tormentato, ha preso la sofferta decisione, sollecitata anche dalle continue curiosità di Filippo, di fare istanza per avere notizie della propria madre naturale. Si è trovata davanti alla dolorosissima scoperta che sua madre aveva dichiarato alla nascita della figlia "di non voler essere nominata", rendendo così giuridicamente impossibile ottenere notizie.
E allora tutti insieme, sollecitati da Filippo possiamo cominciare a capire cosa sia il terribile concetto che finora, pur conoscendolo, nessuno ha capito nella profondità della sofferenza in esso contenuto, che ha unito nel silenzio i tre componenti della famiglia: Filippo non capisce perché una madre possa abbandonarti dopo averti tenuto nella pancia; il padre, a sua volta, non aveva capito perché suo padre non gli parlasse più; la madre non capisce perché una madre, sua madre, possa aver messo al mondo una figlia e poi abbia dichiarato di non voler essere nominata.
Tre muri terribili che non possono essere varcati e continuano a nascondere il significato che sta all'origine del dolore subìto. Davanti a un simile sbarramento 'non si capisce veramente il concetto', non si capisce cosa significhi un abbandono così terribile e definitivo.
Il concetto è un'astrazione che riguarda una pluralità di entità o di cose, sinteticamente epresse col termine che le riassume. Il concetto che Filippo non capisce riunisce il riferimento a tre perdite importanti per padre, madre e figlio. Perdite di genitori naturali che non si capiscono e creano profondo dolore.
E' il dolore incomprensibile che non permette la comunicazione.
Come è possibile parlare a qualcuno di qualcosa di cui non si comprende il significato? E' questo che Filippo dice alla sua dottoressa: quello di cui mi parli non si può capire.
Ci hanno fatto pensare la coincidenza di vissuti così dolorosi nei genitori e nel loro figlio che sembrano avere prodotto un corto circuito nella comunicazione tra i nostri personaggi.
Pensiamo di doverci chiedere se spesso in situazioni di difficoltà, di impasse nei trattamenti, non ci siano alla base dolori psichici gravi considerati non comunicabili.(5)
Crediamo che il blocco e i problemi familiari conseguenti siano determinati, a un certo punto della vita familiare, quando il dolore di uno dei componenti della famiglia si manifesta in modo da sollecitare negli altri sofferenze di uguale profondità, rimaste
silenti per mancanza di qualcuno in grado di pensarle ed esprimerle in parole, perché troppo grandi per essere affrontate.
Il pensatore di cui ci parla Bion.

Andrej e l'angoscia della frammentazione

Il seguente caso ha a che fare con la frammentazione di esperienze di vita primordiale vissute dai bambini adottivi, ma che non facendo parte della memoria autobiografica, non sono esprimibili in parole in un contesto narrativo che dia loro significato.
Andrej, un bambino di 9 anni, adottato a 3, per lunghi mesi durante le sue sedute fa giochi ripetitivi e privi di apparente significato. Ricopre tutto di un manto di stupidità e non senso in un pensiero che trasmette solo immagini senza profondità. Dice di sé stesso: "Non so approfondire i testi".
Notiamo che anche lui, come Filippo, dice esattamente qual è il suo problema, adoperando una frase che certamente non è una frase semplice e che denota una notevole capacità di pensiero.
Invece sembra voler spegnere la sua mente e quella della sua terapeuta attaccando ogni capacità di pensare. La terapeuta assiste impotente non riuscendo a trovare un modo di trasformare il magma indistinto in qualcosa che suggerisca un germe di pensiero. A tratti la sua irraggiungibilità si traduce nel dare l'impressione che la sua mente sia letteralmente andata a pezzi. Questa situazione di mancanza di pensiero diventa talmente intollerabile che è molto difficile rimanergli accanto. Possiamo supporre che ci sia in Andrej un drammatico dolore? Oppure la frammentazione è lei stessa la dimostrazione dell'impossiiblità di provare la sofferenza?
E' quello che succede a persone-bambini ancora troppo fragili e che non hanno accanto adulti capaci di trasformare in pensiero tollerabile situazioni di angoscia catastrofica. Andrej mette la sua dottoressa nella stessa condizione di disperazione in cui lui si trova, in modo che capisca il non senso della vita in cui è stato proiettato con l'abbandono prima e l'adozione poi.
Andrej non riesce a mettere insieme un quadro complessivo della sua esistenza.
In una seduta di diversi mesi dopo l'inizio della terapia, Andrej costruisce con dei fogli e lo scotch un cestino per la carta da riciclare. Sopra ci scrive riciclo e attacca l'adesivo di un coniglio con su scritto "io vivo nell'oasi". Come non pensare a lui chiamato dai genitori "piccolo coniglietto della steppa" che ha trovato un luogo-oasi dove proteggersi?
Ma anche la rappresentazione di un contenitore-mente (la sua dottoressa) dove può mettere finalmente i suoi frammenti da riciclare, nel senso di prendere, raccogliere, mettere insieme questi spezzoni per bonificarli (gathering del transfert, dice Meltzer (6) e si potrebbe aggiungere, partendo dal nome della Dottoressa che lo cura "gattering", da Gatti, che raccoglie), come persona che permette l'unificazione delle sue memorie. Uno scrigno della memoria, di cui parla appunto Artoni (2006,79), che gli permetta di avvicinarsi alla sua storia.
Lo scrigno della memoria per un bambino vissuto nella sua famiglia di origine, è costituito dalla memoria della madre, del padre e non solo, ma dalla catena dei familiari e degli antenati. Nel caso di questi bambini senza una storia conosciuta, lo scrigno della memoria
si costituisce nella mente dei genitori adottivi nel corso della vita in comune, anche con i frammenti di vita del nuovo figlio che si conoscono e si possono ricostruire. E' la carta riciclata di Andrej. Il terapeuta può essere un tramite-catalizzatore importante per favorire la capacità di cogliere, e apprendere quindi, il valore e la possibilità di riunire anche quello che è stato 'rotto'.
Ferro (2007) dice: "favorendo la costituzione dell'apparato per sognare capace di restituire la verità su se stessi".
Nelle sedute seguenti Andrej si dedica alla costruzione di un calendario che vuole arricchire con delle immagini.
Ci pensa per un po' e poi decide: saranno delle foto che lo ritraggono.
E' comune che verso la fine dell'analisi i ragazzi adottati costruiscano qualcosa che ha a che fare col rimettere insieme i frammenti di sé stessi.
Pensiamo a una bambina, diventata adolescente, che verso la fine del percorso terapeutico ha voluto fare l'albero genealogico della sua famiglia.
Su tre fogli allineati orizzontalmente traccia i "rami" della sua famiglia adottiva con molta precisione, attenzione e compiacimento. Il tronco (base) è costituito da lei e dal fratello. Solo dopo alcune settimane comunica che "manca qualcosa", aggiunge un ulteriore foglio, attaccato proprio sotto al tronco, dove scrive Russia.
Le linee tratteggiate che lo collegano e la collocazione spaziale fanno proprio pensare alle radici di questo albero della discendenza.
Radici tratteggiate, recise e in fondo un cerchio e un rettangolo vuoti, la madre e il padre naturali.
In questa linea di pensiero riteniamo molto importante anche il calendario fatto da Andrej che segna il passare del tempo e quindi la costituzione della possibilità di sentirsi parte di un mondo in divenire.
Andrej inizia a portare in terapia suoi ritratti degli anni precedenti sino ad arrivare, seduta dopo seduta, ad una foto dei suoi tre anni (ricordiamo che è stato adottato proprio a 3 anni).
Le foto degli anni in istituto non esistono, ma al momento per Andrej è difficile anche tentare di ricostruire e ricomporre frammenti di un'esperienza interrotta.
"Ero un ninin" dice Andrej "un semino nella pancia della signora" sembra quasi cullarsi nelle sue parole, ma subito l'incanto si interrompe e cambia discorso per non precipitare nel vuoto di un abbraccio di un'immagine materna che non tiene e che lascia cadere e dice: "no, no... fa troppo schifo!".
Questa paura è il terrore senza nome (Bion) di essere lasciato andare in una caduta senza fine e senza argini.
Di questo, oltre a Bion ci parlano gli autori che si sono occupati dei segni di terrore che manifestano i neonati in condizioni di mancanza di accudimento adeguato (Vallino-Macciò, 2006).
Impossibile non collegare Andrej a Filippo che diceva: "come è possibile che una donna ti tenga nella pancia nove mesi e poi ti abbandoni! ...! "Fa troppo schifo!" aggiunge Andrej completando il discorso.
Quello che diventa mostruoso è il mettersi in contatto con qualcosa di profondo che è nel mondo interno di questi bambini e che rimanda a un'angoscia catastrofica, residuo di esperienze appartenenti ai primi periodi della loro vita ancora non pensabili.
L'esperienza importante per Andrej è di trovare una mente che possa accogliere e contenere il dolore e lo schifo che lo invade al pensiero delle vicende dei primi tempi della sua vita, per costruire uno spazio dove il senso dell'esperienza possa prendere forma in modo positivo e costruttivo: l'apertura al futuro insieme all'esperienza del passato e quindi
alla memoria e al ricordo. Si può agevolmente pensare che l'apertura a nuovi pensieri sia una condizione perché anche l'apprendimento diventi possibile.
E' affascinante notare come una narrazione-costruzione che Andrei può fare con l'aiuto della mente ricettiva e non espulsiva della terapeuta, sia determinante per la trasformazione, che avviene in parallelo anche a scuola.
Andrei infatti comincia ad appassionarsi alla storia che ripassa ed approfondisce con il padre (7) e comincia a prendere buoni voti in questa disciplina.
E' molto comune che questi bambini non amino affatto la storia.
Già all'inizio dello studio della storia le insegnanti spesso adottano il sistema, per dare loro l'idea dello svolgersi degli avvenimenti, di chiedere ai bambini di scrivere o raccontare una piccola storia dell'inizio della loro vita.
Capita molto spesso che i bambini adottati vadano in crisi perché non conoscono o non ricordano gli avvenimenti di cui dovrebbero raccontare e non vogliono parlare del loro essere stati abbandonati, che vivono come una profonda ferita narcisistica. Quindi è molto facile che non scrivano e non disegnino assolutamente niente.
E per Andrei la storia ritorna ancora qualche mese dopo in una maniera differente: in una seduta Andrei all'improvviso dice: "domani devo andare a fare un esame al cuore". La terapeuta capisce che si tratta dell'elettrocardiogramma quando il bambino le spiega che si ottiene un tracciato "che è la storia del cuore" .
Questo permette di parlare di più storie del cuore, quella dell'organo che pompa il sangue, ma anche la storia del cuore delle emozioni, del sentire, della mente "bisogna ricordarsi di tutto quello che è successo" dice Andrei, e anche, pensa la terapeuta, del dolore senza nome, catastrofico dell'abbandono.
A questo punto alla terapeuta viene in mente un disegno fatto in una seduta precedente a quella riferita, ma che è molto significativo: Andrei ritaglia da un foglio un quadrato circa delle dimensioni di una fotografia, vi traccia sopra un volto su cui incolla due cerchi (ritagliati da una delle sue fotografie) che completa riempendoli di tanti cerchi rossi concentrici, quasi una spirale. Dietro lui ha scritto, a commento "Gli occhi che hanno visto l'inferno".
Da questo momento incominciano ad emergere i terribili ricordi dell'istituto in cui è stato in Russia.
Non possiamo non ricordare accanto agli "occhi che hanno visto l'inferno", la frase di un'altra bimba rimasta in uno di quegli orfanotrofi dell'Europa dell'est per più di un anno in un lettino di quelli coperti da una rete. Dice di se stessa: "Quando ero morta", volendo riferirsi a quel periodo. Anche qui potremmo unire le due frasi e dire: "Quando ero morta c'erano occhi che hanno visto l'inferno".
Da ultimo una nota di serenità: vorremmo raccontarvi di Adi-neutrino di cui ci siamo già occupate in altra occasione. (8) Nel caso di Adi è la storia che continua.
Adi, di origini russe, oggi è una ragazza di 19 anni seguita in terapia per 8 anni, che ha ormai concluso il suo lungo percorso terapeutico.
Adottata all'età di 7 anni, venendo in Italia perde in apparenza del tutto la conoscenza della sua lingua: non sa più né parlare né scrivere il russo, non ne ricorda nemmeno una parola.
L'ultima tappa della crescita interna di Adi, che ci piace definire un viaggio attraverso l'universo-mente alla scoperta delle sue origini, è ben narrata nell'episodio che segue: Adi decide di iscriversi a una scuola per ri-imparare il russo. Per essere ammessa deve fare un colloquio con un'insegnante madrelingua e inaspettatamente lo sostiene interamente in un discreto russo.
Nulla di magico, questo è il risultato di un lungo lavoro psicoterapeutico individuale parallelo a quello dei genitori tuttora seguiti da una di noi, che a poco a poco ha fatto riemergere immagini interne che hanno potuto così sostenere una memoria di sé e far accedere al luogo delle proprie origini che la lingua materna, appunto, concretamente rappresenta.
Hannah Arendt in un'intervista parla della lingua materna, il tedesco, che per molti anni non ha parlato e ha quasi voluto dimenticare come di una lingua, dice: "che ha avuto origine nel fondo della mia mente (...) e questo non si potrà mai ripetere" e ancora "... non esistono alternative alla lingua materna. Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere."

CONCLUSIONI

Si può concludere con qualche pensiero generale? Forse ancora no.
E' risultato evidente dal nostro lavoro, che ogni bambino ha proprie strategie di apprendimento che vanno scoperte, capite e favorite nel senso soprattutto di rimuovere gli ostacoli psicologici che si oppongono a un libero fluire del pensiero.
Non è certamente una particolarità dei bambini adottivi perché, se andiamo a cercare in profondità, ogni piccolo umano apprende secondo suoi criteri particolari.
Nei bambini adottivi però possiamo sottolineare che esistono difficoltà specifiche.
Gli ostacoli più evidenti sono in genere quelli che hanno a che fare con l'impossibilità di pensare alle proprie origini.
Ipotizziamo che questo blocco costituisca un impedimento verso ogni forma di apprendimento che venga in qualche modo, esplicito o meno, ricollegato all'abbandono subìto.
L'abbandono è una ferita narcisistica primaria eventualmente rimarginabile e cicatrizzabile, ma inguaribile in profondità.
"Perché sono un bambino abbandonato e, quindi, diverso".
Questo è il pensiero che sta alla base del loro sentirsi inferiori ai propri compagni e comunque con caratteristiche diverse e con mancanze primarie fondamentali. Per il momento non possiamo dire altro che il lavoro con quelli di loro che hanno difficoltà scolastiche si svolge soprattutto nella direzione di portarli a poter pensare al dolore che si portano dentro relativamente a questa loro condizione
Vorremmo aggiungere una nota che ha a che fare con una triste situazione politica di questo momento: sembra che si stia pensando di costituire classi per i bambini stranieri che non parlano bene l'italiano.
Come non pensare che anche i bambini adottati stranieri di origine potrebbero essere confinati, ghettizzati meglio, in classi che fanno tanto pensare alle vecchie classi differenziali?
E' di conoscenza generale che l'apprendimento è favorito in modo essenziale dalla relazione con gli altri e con i coetanei in particolare.
Come è possibile pensare che si prendano provvedimenti così dannosi per bambini che non hanno la possibilità di difendersi?
E' molto facile pensare che si colpiscano i più deboli perché non possono protestare... Forse (protestare) potremmo farlo noi che di questi piccoli ci occupiamo "per farli stare meglio".


BIBLIOGRAFIA

ANDERSEN H.C., La regina della neve in Fiabe, Einaudi, 1954
ARTONI SCHLESINGER C., Adozione e oltre, Boria, 2006
BION W. R., Addomesticare i pensieri selvatici. Franco Angeli, 1997
BION W.R., - "Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico", Armando 1970
DI BENEDETTO A., Prima della parola: l'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell'arte. Franco Angeli, 2000
FERRO A., Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Raffaello Cortina, 2007
D. GROSSMAN Ci sono bambini a zigzag, Mondadori, 2007
KAES R., FAIMBERG H., ENRIQUEZ M., BARANES J.J, "Trasmissione della vita psichica tra generazioni", Boria, 1995
MELTZER D. "Il processo psicoanalitico" Armando 1971 (The Psychoanalytic Process, Heinemann, Londra 1967).
SALZBERGER I. et al., "L'esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento", Liguori, 1987
VACIAGO SMITH, Aspetti emotivi dei disturbi di apprendimento, in PONTECORVO M., Esperienze di psicoterapia infantile: il Modello Tavistock, Psycho, 1986
VALLINO D., MACCIÒ M., Essere neonati, II ed., Boria, 2006

NOTE
(1)Bion W.R. Addomesticare i pensieri selvatici. Franco Angeli, 1997
(2)D. Grossman "Ci sono bambini a zigzag"
(3)Mancia M. per la ricca bibliografia in proposito vedi Artoni "Adozione e oltre", Borla, 2006
(4)Il problema delle divisioni è un altro degli scogli che incontrano i bambini adottati. Si può pensare che anche questo sia un problema legato alle separazioni? Sembra un'ipotesi plausibile.
(5)Vedi Kaes R., Faimberg H., Enriquez M., Baranes J.J: "Trasmissione della vita psichica tra generazioni", Borla, 1995. Probabilmente queste situazioni hanno a che fare con trasmissioni psichiche non elaborate e non elaborabili che sono state passate da una generazione all'altra, ma non
comunicabili perché appartenenti a segreti appunto non conosciuti.
(6)Vedi Meltzer (1971)
(7)In alcuni casi abbiamo visto emergere l'importanza dei padri nella ricostruzione della storia complessiva del figlio. Ossia i figli si rivolgono ai padri, piuttosto che alle madri, per avere notizie dei loro periodi di vita prima dell'adozione. Le madri invece vengono interpellate come portatrici della storia della famiglia attuale.
(8)Intervento, non pubblicato, fatto presso il Chaba di Mendrisio (Svizzera) l' 8.10.2005. Oltre all'intervento al Convegno sulla Mente primordiale, vedi Artoni, Adozione e oltre.