giovedì 21 maggio 2009

IL VIAGGIO ALLA RICERCA DELLE PROPRIE ORIGINI

Il Ciai a Milano -vai a venerdì 13 febbraio- e l'associazione Chaba a Camignolo, lo scorso 27 aprile, hanno organizzato un incontro pubblico dedicato alle testimonianze di alcune figlie adottive che hanno deciso di compiere, da adulte, un viaggio nel loro paese d'origine. Un'occasione, per alcune di loro, per ricostruire un legame con la propria famiglia di nascita.
Abbiamo partecipato ad entrambe le iniziative perché tutte le testimonianze, non solo quelle rese dalle protagoniste ma anche dal pubblico in sala, ci sono di grande aiuto per riflettere e per capire un po' di più il complesso fenomeno dell'adozione.

Le relatrici, oggi inserite nel mondo del lavoro e in due casi su tre mamme a loro volta, sono nate in due paesi lontani: l'India e l'Africa. Le ticinesi sono arrivate più di trent'anni da in Svizzera direttamente dal loro paese d'origine. Le prime adozioni, infatti,non prevedevano il soggiorno dei futuri genitori nel paese di provenienza dei bambini; questi arrivavano in gruppo ed erano trattenuti all'ospedale di Ginevra per un periodo di quarantena, a volte senza ricevere informazioni sulla loro sistemazione futura. Una situazione di grande disorientamento per i bambini e, pensiamo, anche di difficoltà per i futuri genitori che raramente avevano esperienza diretta del paese d'origine dei loro figli. Per la prima volta due mondi lontani si incontravano, senza conoscersi. L'amore dei nuovi genitori veniva in soccorso alla solitudine dei bambini che nell'asetticità dell'ambiente ospedaliero erano privati anche degli odori e dei sapori conosciuti, ultimi legami con il loro vissuto.

La ricerca delle proprie origini, anche se nella maggioranza dei casi non si traduce in un vero e proprio viaggio con la valigia, è comune a tutti i figli adottivi. Ci spieghiamo meglio. Usiamo il termine ricerca non necessariamente pensando al ragazzo che si attiva per conoscere, laddove è possibile, il nome e il cognome dei genitori biologici. Parliamo in generale di ricerca, intendendo il lavoro di riflessione che ogni ragazzo adottivo compie, dentro di , alla ricerca della propria identità. È un viaggio interiore, che può durare molti anni, e che costringe a fare i conti con la deprivazione subita.

Pensiamo sia compito di ogni genitore adottivo dare ai propri figli tutto il supporto necessario per riempire questa sorta di buco nero, che è causa di tanto dolore al punto da essere paragonato, da una delle due relatrici di Camignolo, a "un fuoco che può esplodere all'improvviso e divorarti".

Come fare? Innanzi tutto diamo ai nostri figli, da subito, tutte le informazioni in nostro possesso sul loro primo mesi o anni di vita, sotto forma di favola o di racconto secondo l'età. Sta alla sensibilità individuale di ognuno dosare le informazioni, tenendo conto delle curiosità e delle richieste del bambino. Qualcuno potrebbe obiettare che è inutile parlare di adozione, quando i bambini sono piccoli, perché non potrebbero capire. Non siamo d'accordo: anche se non diciamo a un bimbo che è stato abbandonato, lui lo sa, sente il dolore dentro di . ha bisogno di capire che la persona che adesso si prende cura di lui lo comprende e sa quanto lui soffre: solo cosi, comprendendo le ragioni del proprio dolore, riesce a crescere. Troviamo molto azzeccato quanto osservato dai consulenti scientifici del Ciai: così come il bambino piccolo si sente amato quando la mamma o il papà lo vezzeggia, pur non conoscendo il significato delle parole usate dal genitore e questo amore si traduce in auto stima per il piccolo, allo stesso modo si sentirà rincuorato quando i genitori gli parleranno della sua adozione; il legame empatico col piccolo servirà a calmare la sua ansia e gli fornirà i primi strumenti per imparare a controllarla: Crescendo imparerà che anche il dolore può essere accettato e superato.

Voglio conoscerei miei genitori

È soprattutto negli anni più difficili dell'adolescenza, quando le nostre pretese aumentano (li vorremmo studenti brillanti e responsabili, non è così?), i nostri figli incominciano a voler fare di testa propria, stufi che siano sempre gli altri a decidere per loro. Molti, infatti, vivono l'abbandono e l'adozione come delle scelte subite e ora non sono più disposti a tollerare che siano sempre gli altri a programmare la loro vita.

"Chi sono io?". "A chi appartengo?". "Perché mi sento un ospite in famiglia?". "A chi assomiglio?". "Perché i miei coetanei mi sono estranei?". "Ho più problemi degli altri perché sono diverso?". "Noi adottivi siamo figli di serie B?". Sono domande concrete, anche se non sempre vengono espresse.
In alcuni ragazzi la sensazione di estraneità nei confronti della famiglia e dei coetanei, l'immaturità, la scarsa auto stima e il pensiero di essere diversi si trasformano nella determinazione di voler ritornare nel proprio paese d'origine alla ricerca della propria famiglia naturale. Alcuni di loro agiscono sotto una spinta ideale, gravata dal senso di colpa per aver lasciato i genitori che li hanno messi al mondo: "Che vita fanno?", "Ho dei fratelli?", "Sentono la mia mancanza?". Ingenuamente pensano di poter modificare le cose e creare una specie di grande famiglia allargata in cui tutti, i quattro genitori (biologici e adottivi) e gli eventuali fratelli possono trovare una loro collocazione: un po' come mettere insieme i tasselli di due puzzle, soluzione impossibile! Inoltre riattivare un legame è molto pericoloso per tutti i soggetti coinvolti: innanzitutto per i figli, quando non hanno ancora avuto il tempo di fare pace con il proprio passato, e poi anche per i genitori che li hanno dati in adozione e che potrebbero aver rimosso una scelta così dolorosa.

Gli esperti del Ciai hanno sottolineato la necessità di approfondire con i ragazzi le ragioni che li spingono a ricercare i genitori biologici, partendo da quattro domande basilari:

- perché lo vuoi fare?
- cosa cerchi?
- come lo cerchi?
- che momento è della tua vita?

Solo partendo da un "viaggio interiore, che costituisce il vero viaggio", è possibile dare delle risposte e aiutare i ragazzi a trovare la loro identità.
Noi pensiamo che sia importante un percorso condiviso, così che anche i genitori non ne siano esclusi e non si trovino da soli a gestire "la paura di perdere il proprio figlio". L'aiuto di un professionista può essere in molti casi risolutivo ed è proprio per questa ragione che molte associazioni di famiglie adottive hanno deciso di farsi aiutare per meglio aiutare i propri figli. In questo modo il viaggio alla ricerca delle proprie origini, compiuto in età adulta, con una dovuta preparazione e il sostegno della famiglia adottiva, offrirà ai nostri figli l'occasione per considerare un valore la loro doppia appartenenza etnica, culturale e famigliare.