mercoledì 11 febbraio 2009

Niente di personale

In Ticino non esiste una casistica aggiornata del disagio adottivo e manca un servizio di pronto intervento specialistico in caso di crisi. Ritrovare sulla stampa ticinese la proposta dell’avv. Reto Medici, magistrato dei minorenni, di creare, in tempi brevi, una struttura di “pronta emergenza” per aiutare e contenere gli adolesenti problematici ed aggressivi ci fa sentire meno soli. Restiamo d'altra parte in attesa di poterne valutare la portata e l'adeguatezza allorché verranno rese note le sue caratteristiche e la sua organizzazione.
Tutti noi abbiamo cercato di “indirizzare”, “aiutare e “contenere” i nostri figli e di trovare soluzioni; “non siamo di quelli che pretendono e basta”.
Le espressioni virgolettate sono riprese dalla lettera indirizzata a “la Regione Ticino” - e pubblicata venerdì 6 febbraio - dalla mamma del ragazzo adottivo processato a Lugano per bullismo e violenza. È una mamma provata da anni di lotte, ma soprattuttto è un' amica, è una di noi; lei e il marito hanno deciso di non mollare, di continuare ad impegnarsi giorno dopo giorno.
Pubblichiamo anche noi il testo della lettera e ne facciamo il nostro manifesto.

Sono la mamma del ragazzo processato ieri a Lugano per violenze.
Voglio esprimere il mio dolore. Non quello privato, famigliare, intimo.
Ma un dolore che deve essere espresso socialmente.
Quello che è stato scritto sui giornali è vero, con varie sfumature.
Cronaca.
Dopo c’è tutto il resto.
Non sapevamo quello che faceva nostro figlio all’esterno.
Quando abbiamo intuito e poi subìto noi stessi, siamo intervenuti per farlo fermare.
E’ importante: evidentemente non voglio giustificare, ma far capire.
La nostra è una lunga storia di difficoltà, tentativi, ricerca di aiuti, disorientamento. Anche gioie, per carità; ma da tempo e per ora non prevalgono più.
La nostra famiglia è andata avanti grazie alla nostra tenacia, all’aiuto degli amici, all’incontro con alcune “perle rare” impegnate nel sociale che si sono aperte alla comprensione, al gruppo di genitori adottivi con cui ci incontriamo.
Non abbiamo abbandonato nostro figlio, abbiamo cercato di indirizzarlo, aiutarlo, contenerlo.
I giornali scrivono “figlio adottivo”. Adottivo o meno è sempre figlio, profondamente e completamente.
Però l’adozione è giusto nominarla; ma per un altro motivo, che - una volta detto - sembra evidente: prima dell’adozione c’è l’abbandono. Per povertà, ignoranza, superficialità, disperazione, problemi sociali o di salute, rifiuto. Tanti possono essere i motivi, ma comunque per chi è stato abbandonato sono incomprensibili e spesso devastanti.
Tanti sono i ragazzi adottati in difficoltà e di conseguenza i loro genitori.
Stiamo cercando di arrivare alla consapevolezza di questo, fra le famiglie in difficoltà e con le istituzioni. Creare la “cultura dell’adozione” per intervenire quando ce ne sia bisogno.
Il debriefing è ormai pratica comune quando accadono avvenimenti di forte stress. Come è giusto!
Ma allora forse bisognerebbe avere anche un occhio discreto e sensibile verso i bambini che hanno subìto un’esperienza tanto traumatica, un sostegno ai genitori che ne sentano il bisogno.
Per ora, quando i problemi esplodono, cosa succede? Prima di tutto, una distinzione fra sotto e sopra i 18 anni. Come se problemi e persone non fossero sempre gli stessi.
E poi? Tentativi nelle strutture a disposizione, che dopo un po’ “dimettono” perché non adatte alla casistica.
Comprensibile. Però di questi ragazzi che ne facciamo?!
Una volta ci hanno detto che nostro figlio non rientrava in nessuna categoria: non delinqueva, non era tossico, non era psichiatrico. Nessuno ha risposto alla mia domanda: “dobbiamo aspettare che sia inquadrato in una di queste categorie? non si può aiutarlo prima?”.
E a questo punto non siamo più nella definizione “adottati”. Qui siamo nel campo dei ragazzi o delle persone in difficoltà e senza un aiuto adeguato.
Mio figlio ha perseguitato e colpito un ragazzo minorenne in difficoltà. Anche lui una vita di tentativi, di istituti, fallimenti e poi ............ una sistemazione in un garni, l’accompagnamento di un tutore bravo, ma che deve occuparsi di altre decine di casi.
Il mio dolore, profondo e disperato, va anche a questo ragazzo, alla sua sofferenza, alla sua solitudine.
Pochi anni fa, è stato dichiarato che i casi problematici si potevano contare sulle dita delle mani. Già allora in parecchi siamo rimasti stupiti da questa minimizzazione.
Ma ora il numero dei “casi” è decisamente e chiaramente aumentato, come sembra aumentare l’impotenza di chi se ne dovrebbe occupare.
Non ci sono strutture in Ticino. Bisogna andare in Svizzera francese o tedesca e bisogna conoscere un po’ la lingua, se hanno posto, se accettano, se se se ..........
Ho come la sensazione che la società cambi, ma lo stato non riesca a star dietro al cambiamento.
Ci sono gruppi di studio, proposte, approfondimenti.
SCUSATE: noi (e intendo evidentemente non solo la mia famiglia, ma tutti quelli che sono nelle stesse condizioni problematiche) abbiamo bisogno subito di un aiuto concreto, che poteva essere programmato già da anni, come del resto richiesto da anni da non pochi operatori.
In tutti questi anni difficili per la mia famiglia, ci siamo impegnati come potevamo per cercare soluzioni. Non siamo di quelli che pretendono e basta.
Pensiamo anche che sia fondamentale la solidarietà e l’aiuto fra persone, fra amici. E’ quello che abbiamo ricevuto e dato. Continueremo a impegnarci.
Ma a volte non basta.
Questa mia lettera non vuole essere nel modo più assoluto polemica. Vuole esprimere le mie riflessioni e i miei sentimenti, soprattutto a quanti possono capirli perché li vivono loro stessi in prima persona.

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