Alcuni comportamenti dei nostri figli ci risultano incomprensibili e ci spaventano. Spesso ci sentiamo in difficoltà a parlarne con altri genitori. Come si fa ad ammettere che il proprio figlio ruba oppure che compie atti di vandalismo oppure che è aggressivo in famiglia e, ancor più grave, non sembra dimostrare un serio ravvedimento, al punto da farci dubitare che in futuro eviterà di ripetere azioni tanto riprovevoli?
Diciamo subito che non sono pochi i genitori adottivi alle prese con questi problemi. Ognuno poi reagisce a suo modo: alcuni minimizzano, altri ne fanno un dramma ma penso che tutti alla fine si chiedano: “Perché proprio a me? Dove ho sbagliato? E adesso cosa faccio?”. Ma è corretto parlare di sbaglio?
Il testo riportato qui sotto è di Donald W. Winnicott: è una sua conferenza del 1956 (!) pubblicata nel libro postumo Il bambino deprivato, Cortina ed.,1986.
“Un’amica mi chiese di discutere il caso di suo figlio, il maggiore di quattro bambini (…); egli rubava a piene mani sia nei negozi sia in casa.(…) Le spiegai dunque il significato del furto e le suggerii di trovare il momento adatto, nel suo rapporto con il bambino, per interpretarglielo. Ogni sera lei e John ( così si chiamava il figlio) godevano di una buona, reciproca intesa per alcuni minuti, dopo che il bambino era andato a letto. Di solito, in quei momenti, a lui piaceva parlare delle stelle e della luna. Questo poteva essere il momento adatto. Dissi: - Perchè non spiegargli che lei sa che quando ruba non vuole le cose che ruba, ma è alla ricerca di qualcosa a cui ha diritto, che reclama dalla madre e dal padre questo qualcosa perché sente di essere deprivato del loro amore? -.
(…) Qualche tempo dopo ricevetti una lettera dalla madre che mi diceva di aver seguito il mio suggerimento (…). - Gli ho detto che ciò che egli desiderava veramente rubare, quando rubava denaro, cibo e oggetti, era la sua mamma. Devo dire che non mi aspettavo davvero che capisse, ma sembrò invece comprendere. Gli ho chiesto se pensava che non gli volessimo bene perché qualche volta era cattivo, ed egli mi ha subito risposto che era vero, che non credeva che gli volessimo molto bene. Povero piccino! Non posso dirle come sono rimasta male. Ho detto a John di non dubitare mai, mai più, e se gli fossero venuti dei dubbi, di ricordarmi di ricordarglielo. Ma naturalmente per lungo tempo non avrò bisogno che me lo ricordi: è stato un tale colpo per me! Sembra quasi che si abbia bisogno di tali colpi. E così cerco di dimostrargli di più il mio affetto in modo da impedirgli di poterne dubitare ancora. Fino ad oggi non si sono più verificati furti -.
La madre aveva parlato con l’insegnante spiegandole che il bambino aveva bisogno di affetto e stima, e aveva ottenuto la sua collaborazione anche se il bambino era molto difficile a scuola.
Ora, dopo otto mesi, è possibile affermare che non si è più verificato nessun ritorno del furto, e che il rapporto tra il bambino e la sua famiglia è notevolmente migliorato.
(…) Ciò che feci, quindi, ebbe l’effetto di una doppia terapia perché permise a questa giovane donna di comprendere a fondo le sue difficoltà attraverso l’aiuto che fu in grado di offrire a suo figlio. Quando diamo una mano ai genitori a essere di aiuto ai propri figli, in realtà sono i genitori stessi che noi aiutiamo”.
L’esempio citato non riguarda un bambino adottivo. Winnicott usa l’aggettivo deprivato per riferirsi a bambini a cui improvvisamente viene a mancare la continuità di cura garantita dalla madre perché costretta ad abbandonare i propri figli per salvarli dai bombardamenti in tempo di guerra, oppure perché costretta a un lungo ricovero in ospedale, o nel caso di un affidamento o di una adozione o altro ancora. Poichè il legame con la madre viene interrotto in un momento in cui il bambino non ha gli strumenti per capire che cosa gli stia succedendo, egli è vittima di una specie di “black out” emozionale che lo espone ad un’”impensabile angoscia”. La deprivazione può causare effetti devastanti e l’aggressività, sia che si manifesti nel rubare, nel mentire, nel distruggere o altro, non è superata dal desiderio di riparare il danno, di costruire e di assumersi delle responsabilità; processi che il bambino non ha potuto elaborare in assenza di un ambiente stabile e sicuro.
Fortunatamente, sempre secondo Winnicott, le azioni dei nostri figli, che tanto ci spaventano, sono dei segnali di speranza perché sopraggiungono quando essi ritrovano fiducia nella nuova famiglia. Naturalmente è un processo inconscio e non è un caso che essi finiscano per fare del male proprio alle persone che più amano. “Il comportamento antisociale a volte non è altro che un SOS per ottenere il controllo da parte di persone forti, amorevoli e sicure (…). Il bambino normale, aiutato nelle fasi iniziali dalla propria famiglia, sviluppa la capacità di controllare se stesso. Sviluppa ciò che è talvolta chiamato ambiente interno, con la tendenza a trovare un buon ambiente. Il bambino antisociale (…) non avendo avuto la possibilità di far crescere un buon ambiente interno, ha assolutamente bisogno di un controllo dall’esterno per essere contenuto e poter giocare e lavorare”.
martedì 10 febbraio 2009
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