giovedì 9 aprile 2020

"La paura dell'abbandono..." Incontro con la dott.ssa Livia Botta (14.01.2020)



La paura dell'abbandono riemerge in alcune fasi della vita: legami sentimentali e non solo https://www.spazioadozione.org/calendario/la-paura-dell-abbandono


Sapere cosa può succedere quando i nostri figli diventano adulti ci permette di attrezzarci per tempo, riducendo il rischio di essere ostaggi della nostra (e loro) emotività. E’ utile, come suggerisce la dott.ssa Botta, fare una mappa dei comportamenti ricorrenti, per evitare di reagire in modo scomposto ed esacerbare le tensioni. Quando loro stanno male, stiamo male anche noi e, come prima cosa, abbiamo bisogno di calmarci, di incominciare a riflettere e lavorare per capire, così da evitare pesanti ricadute sulla tenuta del legame. Ecco l’importanza di un aiuto esterno alla famiglia, di altri genitori e/o di specialisti in adozione.

Noi e i nostri figli abbiamo bisogno di elaborare lo tsunami di emozioni che può rischiare di travolgerci. Quando dobbiamo fare i conti con le nostre fragilità (senso d’impotenza, ansie, paure, ecc.) abbiamo bisogno di tutta la nostra forza.

Primo consiglio: non rompere mai il legame!

“ Quando parliamo di condizione adottiva adulta non parliamo - ovviamente - di una condizione univoca.
Tanti soggetti che sono stati adottati procedono abbastanza bene nell’età adulta: sono capaci di instaurare e mantenere relazioni intime, familiari, amicali soddisfacenti, di sentirsi sufficientemente gratificati dalle esperienze lavorative, soprattutto di venire a patti con le inevitabili difficoltà e frustrazioni che la vita adulta comporta. Come tanti altri adulti, possono ricercare un aiuto psicologico per difficoltà e problematiche che non compromettono in modo significativo il loro equilibrio personale (tipicamente, questioni legate alla conoscenza delle origini, difficoltà a superare lutti e perdite).
Pochi altri adottati adulti hanno sofferto traumi talmente gravi nell’infanzia da non essere in grado di condurre una vita adulta autonoma e da richiedere una presa in carico psichiatrica e/o l’inserimento in una residenzialità protetta.
Ma c’è anche una grande area intermedia di soggetti che, pur in grado di condurre una vita personale più o meno autonoma, incontrano difficoltà non indifferenti nelle aree delle relazioni e del lavoro: problemi a concludere un percorso di studi, a mantenere un’occupazione e a tollerare frustrazioni e difficoltà in ambito lavorativo; tendenza a instaurare relazioni sentimentali “sbagliate” e difficoltà a interromperle; problemi nelle relazioni sentimentali o amicali, vissute con scarsa responsabilità, comportamenti possessivi, iperdipendenti, conflittuali, imprevedibili; prolungata dipendenza dalla famiglia; serie difficoltà a gestire separazioni e lutti. In casi più seri, persistenti disturbi della personalità possono tradursi in comportamenti irregolari, provocatori e violenti, in abuso di sostanze o di alcol, in agiti delinquenziali.
La mia esperienza clinica con giovani adulti adottati suggerisce che per quest'ultimo gruppo di soggetti ci sono molte possibilità di miglioramento: in alcuni casi si possono raggiungere cambiamenti significativi; nelle situazioni più serie ci si deve spesso limitare a piccoli progressi, non sempre risolutivi delle problematiche di fondo ma comunque utili a diminuire il malessere dei vari membri della famiglia e a consentire che le criticità ancora presenti non compromettano troppo la vita e le relazioni”. Con l’ingresso nell’età adulta, è ovviamente l’adottato stesso a dover diventare responsabile e artefice del proprio cambiamento (una psicoterapia “informata sull’adozione” ne è la via regia, ma anche i gruppi di auto-aiuto possono fare molto). Ma un aiuto significativo possono darlo anche i genitori - soprattutto nelle situazioni più critiche – se riescono a superare le inevitabili sensazioni di sfiducia, impotenza, colpevolizzazione, a valorizzare quanto c’è di positivo nei comportamenti del figlio, a comprendere lo stato mentale sottostante ai suoi agiti, a trovare strategie comportamentali diverse dall’iperprotezione, dalla collusione o dal rifiuto. Sono comportamenti utili nei confronti dei figli adulti, ma ancor più produttivi se messi in atto precocemente”. (“La condizione adottiva adulta. Proposta di un gruppo di riflessione e approfondimento”, post del 26 gennaio 2020 https://www.liviabotta.it/blog):

Mappa

1.    difficoltà non indifferenti nelle aree delle relazioni e del lavoro: problemi a concludere un percorso di studi, a mantenere un’occupazione e a tollerare frustrazioni e difficoltà in ambito lavorativo;

2.    tendenza a instaurare relazioni sentimentali “sbagliate” e difficoltà a interromperle;

3.    problemi nelle relazioni sentimentali o amicali, vissute con scarsa responsabilità, comportamenti possessivi, iperdipendenti, conflittuali, imprevedibili;

4.    prolungata dipendenza dalla famiglia;

5.    serie difficoltà a gestire separazioni e lutti.

6.    in casi più seri, persistenti disturbi della personalità possono tradursi in comportamenti irregolari, provocatori e violenti, in abuso di sostanze o di alcol, in agiti delinquenziali.

Cosa cercano in una relazione sbagliata?
Cercano un legame che li faccia stare meglio, spesso un compagno/a da aiutare.
Loro, per primi, avrebbero bisogno di essere aiutati, ma questo pensiero mal si concilia con la convinzione di saper badare a loro stessi (“io non ho bisogno di nessuno”, “me la sono sempre cavata da solo/a”). Aiutando chi sta peggio di loro o che ha bisogno, curano la loro parte fragile (anche l’avvicinamento agli animali è un modo di prendersi cura della loro parte ferita). Più l’altro è mal messo, più loro sembrano stare bene, stabilizzarsi.
La scelta di un partner “sbagliato” mette a dura prova soprattutto le mamme, che guardano, impotenti, le figlie improvvisamente in balia di un legame esclusivo e totalizzante, fondato sul controllo e la dipendenza dal compagno di turno. Questa predilezione per le relazioni “malate” sembra condizionare anche la scelta delle amicizie, totalizzanti ed esclusive e poi improvvisamente interrotte e dimenticate A rendere oltremodo difficoltosa la tenuta della relazione può contribuire un comportamento ambivalente: “oggi sono così, domani sono cosà”, una specie di sdoppiamento della personalità. Nei casi più gravi si registrano dei veri e propri disturbi della personalità, dovuti ad uso di sostanze, dipendenze e presenza di una forte aggressività. Questi comportamenti (indipendentemente dal sesso dei figli) trovano una loro logica se letti come espressione del trauma da separazione da figure di riferimento: l’ abbandono della madre e la conseguente perdita del senso di sé (in alcuni casi si assiste addirittura al rifiuto di ogni forma di relazione).
Anche l’appartenenza ad una gang è un modo per ritrovare il passato, in particolare da parte dei bambini che hanno vissuto una situazione di abbandono per la strada. Non dobbiamo dimenticare che l’adozione ha costretto i nostri figli a un salto sociale enorme. Spesso le relazioni adottive più riuscite sono quelle che riguardano i ceti meno abbienti, dove non è presente il senso d’inadeguatezza, il non essere all'altezza, il non sentirsi accolti, il non essere al posto giusto.

Il ruolo dei genitori
Noi genitori dobbiamo lasciare da parte il desiderio del figlio/a ideale e imparare a fare i conti col figlio/a che c’è, le sue inclinazioni, i suoi interessi!
Spesso pensiamo di poter aiutare i nostri figli, ad esempio a scuola, ritenendo il nostro intervento indispensabile alla loro  riuscita.  Attenzione: non sempre siamo in grado di dosare il nostro aiuto. Per loro siamo troppo “ingombranti”, troppo bravi. Ecco allora l’utilità di altre figure educative; un amico più grande, ad esempio, può fare molto e diventare un modello da seguire. I genitori possono essere troppo “pesanti” e avere difficoltà a dosare il loro troppo amore. I figli vogliono collaborazione: l’aiuto di un accompagnatore (di un facilitatore) non il giudizio di un genitore, spesso iperprotettivo e sopraffatto dall’ansia di non capire come mai il proprio figlio faccia di tutto per auto-boicottarsi. Questo comportamento è legato non solo alla bassa autostima ma anche alle costanti interruzioni, separazioni, cesure che ha vissuto nella vita preadottiva. Accettare il nostro aiuto lo fa sentire debole; meglio incoraggiarlo dicendo “ma prova”, “vedi se funziona”. In altre parole accompagnarlo nel cammino senza avere già in tasca la soluzione. L’ambiguità del nostro aiuto sta nel fatto che, se noi ci siamo sempre, lo confermiamo nella convinzione di non essere in grado di farcela da solo. Dobbiamo lavorare, invece, per accrescere l’ autonomia e il senso di responsabilità.

Arriva poi il momento di prendere le distanze. Non possiamo essere onnipresenti. Abbiamo lavorato per anni (l’adolescenza arriva tardi e dura anni) per risarcirli dal danno subito. Ora basta: non possiamo andare avanti per tutta la vita! Dobbiamo imparare, come genitori, a prenderci i nostri rischi; ad accettare che i nostri figli possano commettere degli errori e lasciarli liberi di sbagliare. Non dobbiamo rimanere schiavi della paura di quello che potrebbe succedere! E’ importante credere nelle loro capacità e talenti e fare il tifo per la loro riuscita. Quando la paura porta al controllo è negativa, non ha valore evolutivo; invece, se controllo, cioè seguo mio figlio affinché faccia quello che deve fare perché ha talento e deve metterlo a frutto, allora va bene.

Uscire di casa

Divenuti grandi, alcuni hanno difficoltà a rendersi autonomi, a sganciarsi dalla protezione della famiglia; altri, al contrario, rivendicano ad alta voce il diritto di fare da soli e, se trovano ostacoli, se ne vanno sbattendo la porta. Un comportamento non esclude l’altro: è possibile che dopo una fuga si assista al rientro in famiglia, seguito da un difficile percorso verso una reale autonomia. Le risorse le hanno ma non sempre le usano, a volte fa comodo non usarle e dipendere dagli altri.

Se, invece, il figlio vuole andare e se la sente bisogna lasciarlo fare, lui deve sapere che avrà sempre la possibilità di tornare indietro. L’allontanamento da casa non è un nostro fallimento, al contrario! L'adottato, libero di progettare la propria vita, riesce più facilmente a mettere insieme tutti i tasselli del proprio vissuto: ricostruendo la propria storia ne diventa il padrone. Quando un adottato adulto riesce a fare i conti con l'abbandono, vuol dire che nella famiglia adottiva c'è stata coerenza, costanza, affettuoso accudimento sviluppato su tanti anni. Allora è stata acquisita la sicurezza necessaria per allontanarsi da casa. L'adottato che riesce a costruirsi una storia, a volte, non vuole neanche più cercare le origini: sta bene così.

A questo punto il nostro compito è di riprendere in mano la nostra vita, ritrovare l’indipendenza come coppia, seguire da lontano i nostri figli e, se richiesto, incoraggiarli a perseguire i loro obiettivi. Mantenere le distanze: “Veditela tu se sbagli” e non accettare alcuna forma di legame ricattatorio.
In alcuni casi, purtroppo, non ci si riesce. Occorre avere ancora pazienza. Ci sono figli che avrebbero bisogno di uscire da casa per imparare, un po’ alla volta, a diventare autonomi ma non sono riusciti a portare a termine gli studi; non lavorano; svolgono mansioni mal retribuite. Capita anche, e non sono casi isolati, che i nostri figli, non ancora indipendenti, diventino a loro volta genitori e abbiano bisogno, ancora per un po’, del nostro aiuto. E infine, ma non certo ultimi, ci sono i nostri figli più feriti, quelli sempre presenti nei nostri pensieri e amati da lontano, che lottano all’interno di strutture di contenimento (carceri, centri chiusi, comunità, ecc.) e che, per anni, sono stati privati di un sostegno specialistico e tempestivo in adozione (vedi https://www.spazioadozione.org/la-solitudine-dei-genitori.)


Devianze

Gli adulti non si possono costringere. Però quando si entra nel penale, sì. L’esperienza del carcere è sufficiente a farli cambiare? Il carcere non risolve il problema, però li aiuta a calmarsi. E’ un contenitore dove le relazioni sono meno impegnative. Hanno meno doveri emotivi. Le regole del gregge sono poche e funzionano. I genitori non devono avere cedimenti: devono mantenere una posizione chiara che non lasci spazio a giustificazioni o collusioni ma non devono in alcun modo rompere il legame. Il cammino sarà lungo e faticoso. La paura non paga, la pazienza e la nostra presenza sì, perché aprono la via alla riconoscenza. I nostri figli sono più forti di quello che noi pensiamo.


L’importanza dell’elaborazione

Attraverso l’elaborazione della propria storia adottiva i nostri figli riescono a fare i conti con il loro passato. Il passato non è rimosso ma riconosciuto, ascoltato, integrato con il presente. Anche la rabbia acquista un senso e una legittimità e diventa controllabile, come la tristezza, l'ansia, la depressione. Acquisendo la consapevolezza di non essere responsabili di quanto è loro successo, superano il senso di colpa e di vergogna e la sensazione di non essere degni d’amore. Ora sono responsabili del loro presente e del loro futuro. Sono pronti a vivere in modo sano i legami con i genitori adottivi, gli amici, i partner, i datori di lavoro, ecc.

L’elaborazione è una componente essenziale anche del cammino dei genitori. Riflettendo sul nostro senso di colpa e d’impotenza, superando la paura del domani potremo entrare in una fase di nuova progettualità. Ritrovare il piacere del tempo per noi, “provare piacere a vivere senza sentirsi indispensabili per un’altra persona fragile e dipendente”. (Livia Botta, Genitori adottivi per sempre?,post 23 maggio 2029 https://www.liviabotta.it/post/genitori-per-sempre)

domenica 5 aprile 2020

Domande, risposte e trucchi per genitori spaventati



(appunti presi da una mamma in occasione dell’incontro con il dott. Giacomo Mazzonis del 18.02.2020)


 Perché i nostri figli fanno così fatica ad imparare dall’esperienza? Perché ripetono sempre gli stessi errori?

Perché nei nostri figli esiste un forte contrasto tra sistema emotivo e sistema razionale ed è il sistema emotivo ad avere il sopravvento. Noi chiediamo ai nostri figli di pensare prima di agire, di ricordare come devono comportarsi, di riflettere sugli errori fatti per evitare di ripeterli nel futuro. E’ qui l’errore! Questa tecnica va bene per noi ma è un disastro per loro.
Non funziona perché, se oggi sono qui con noi (ed è la minoranza dei bambini abbandonati  quella che va in adozione, quella meno disturbata), è grazie alla loro capacità di elaborare strategie per  dimenticare” le esperienza traumatiche subite. Se non fossero stati in grado di mettere da parte i ricordi non avrebbero potuto farcela. La capacità di cancellare è stata per loro un validissimo aiuto. Il pensiero, invece, è loro nemico. Noi chiediamo di usarlo ma non stupiamoci se poi dimenticano… dimenticano… dimenticano! E in più noi pretendiamo che riflettano sugli errori, sui loro difetti, sulle situazioni che hanno causato ansia e dolore, così da poter migliorare. Questa tecnica è un vero disastro!
Esempio. Non stupiamoci se dopo aver studiato un intero pomeriggio con loro, per preparare una importantissima relazione per la scuola, l’indomani la dimenticano a casa!

Cosa fare?

Non possiamo sostituirci a loro, studiare al loro posto, fare i compiti per loro, ecc. Dobbiamo lavorare per anni ai loro fianchi; dobbiamo creare occasioni per gratificarli (“farli vincere facile”), per far aumentare un po’ alla volta la loro autostima. Non è un problema che si risolve in tempi brevi: occorrono anni ed è meglio farsi aiutare. E non stupiamoci se in alcune fasi della loro vita, da adulti, replicheranno gli stessi comportamenti  tenuti nell’infanzia. Quello che si impara da piccoli resta più impresso perché non si hanno gli strumenti per reagire.  Prima avviene il trauma più vaste sono le conseguenze. Un abbandono a zero giorni è più importante di un abbandono a cinque anni. Certamente le cose cambiano se il bambino, nei cinque anni trascorsi, è stato vittima di ulteriori traumi (violenze, abusi…).
Domanda. Mio figlio a zero anni è stato messo in istituto. Noi lo abbiamo adottato a sette anni  e ora ne ha quindici. E’ con noi da ben otto anni ma sembra non fidarsi di noi. Perché non capisce che gli vogliamo bene? Cambierà?
Risposta. E’ già cambiato! Non si deve paragonare la situazione di un figlio adottivo con quella degli altri bambini della sua età (il cugino, il compagno di classe…). Si dovrebbe, invece,  paragonare la situazione di un figlio adottivo con quella in cui si troverebbe oggi se non fosse stato adottato! Provate ad abbandonare due ragazzi, uno biologico e uno adottato, chi sopravviverà?, chi ce la farà meglio? L’adottato: vostro figlio!

Perché gli adottati adulti possono avere difficoltà a capire i bisogni di accudimento dei figli?
 In una situazione di stress (prodotto, ad esempio, dal pianto disperato dei figli o da una loro ripetuta richiesta di attenzione in un momento del tutto inopportuno) il sistema emotivo ha nuovamente il sopravvento. Quando da piccoli non si è stati considerati, non si sono ricevute attenzioni o, peggio, si sono subiti maltrattamenti dagli stessi genitori, da grandi si potranno avere difficoltà ad accettare come prioritari i bisogni altrui, anche quelli dei propri figli. Non è una questione di insensibilità:  chi non è mai stato al primo posto ha difficoltà a mettersi al secondo (essere genitori vuol dire sapersi mettere al secondo posto). Se ho ricevuto, riesco a dare. Solo se sono stato al primo posto, riesco a stare al secondo.

Perché non si mettono in gioco?

Perché “se non gioco non perdo”. Non accettando le sfide, mantengono la convinzione di essere dei vincenti, di essere come gli altri o più bravi degli altri. Sono presuntuosi. Si persuadono di non trovare mai l’occasione giusta per affermarsi : non lavoro perché non trovo nulla alla mia altezza!
Esempi.
Scuola. Se non studio e prendo due è tutto normale; se dovessi studiare e non raggiungere la sufficienza dovrei fare i conti con la mia immagine di perdente.
Lavoro. So di far bene un determinato lavoro. Ciò nonostante lo rifiuto perché temo che quel poco di buono che mi viene riconosciuto non si confermi: cosa faccio se gli altri non riconoscono le mie capacità?
Affettività. In una relazione sentimentale sono più protetto se ho tante ragazze. Se una mi pianta, non cade il mondo e dunque non sto male. Gli adottati spesso giocano in difesa: vogliono evitare un nuovo abbandono. Puntando tutto su un legame esclusivo, se questo dovesse rompersi allora sì sarebbero dolori!
Amici. “Mio figlio non esce mai. Quando gli amici lo chiamano esce ed è contento, ma lui non si propone mai (paura di un no).
Questo comportamento è vincente nel “qui e ora” (il solo spazio temporale in cui spesso vivono i nostri figli), è deleterio, invece, a lungo termine. Non mettendosi mai in gioco non hanno occasione per aumentare la loro autostima, che è destinata a scendere ancora di più.

Perché rompono i legami?

La paura dell’abbandono è sempre in agguato. Quando un legame diventa importante preferiscono romperlo. Quando un amico/ ragazza diventa troppo importante, lo/la mettono da parte. Questa tecnica li preserva dall’essere abbandonati per primi. Si comportano così perché hanno fatto l’esperienza di essere rifiutati, quando ancora non avevano gli strumenti per reagire (chi ti mette al mondo sta al tuo fianco h 24/24!). La paura è un’emozione che c’è, che si può provare fin dalla nascita. Anche se non c’è la memoria visiva, c’è quella uditiva, sensoriale e cinestetica (legata alle percezioni tattili).
La paura della perdita ha la meglio sui benefici legati all’affettività.

Tecniche di comportamento: perché provocano?

Capita che i nostri figli ci provochino affermando che i loro genitori biologici erano migliori di noi o che la vera maternità è quella di sangue. Quando questo capita bisogna far finta di non aver sentito: non bisogna mai rispondere alla provocazione, le loro parole devono entrare in un orecchio e uscire dall’altro. I nostri figli sono innamorati di noi anche se ci rifiutano. Il loro è un io fragile e vulnerabile mascherato da un io forte e aggressivo. Offrono disprezzo a chi dona loro amore: di fronte ad un figlio che dice: “Non ti amo” c’è una sola risposta: “Peccato perché io ti amo!” 
 Noi offriamo ai nostri figli una serie di opportunità; diamo il massimo, non molliamo mai la presa! Ma se la sofferenza è troppo grande, le cose non possono andare bene! E’ la sofferenza che crea il problema non il figlio.  Abbiamo un nemico comune: non è lui che ci fa soffrire, è la sua sofferenza. Apparentemente sembra agire in modo consapevole ( “allora non ci ama davvero?”), invece egli agisce solo per istinto (paura di essere amato, paura di un nuovo abbandono, timore di essere inadeguato).
 Le tecniche comportamentali acquisite nella prima infanzia condizionano il presente dei nostri figli. Quali tecniche hanno usato da piccoli per riuscire a contenere l’ansia, l’angoscia, lo stress, il dolore…? Lo capiamo osservando le loro reazioni da adulti. Di fronte a un forte spavento si paralizzano?, cadono in depressione?, scappano?, aggrediscono? (una modalità, anche se dominante, non esclude le altre).
Mi paralizzo: resto vigile e fingo l’immobilità oppure mi paralizzo e il corpo mi abbandona, lascio il corpo e vado con la mente altrove=mi dissocio (tipico nei casi di violenza sessuale)
Fuggo: es. nel bosco, da una persona, da un lavoro…
Aggredisco: soprattutto quando gli altri cercano di parlare con me per capire la ragione dei miei comportamenti.

Reazioni post-traumatiche da stress: rabbia, pianto, crisi.

Sono situazioni in cui la parte emotiva del cervello ha il sopravvento. Dal momento che vengono meno gli inibitori sociali (legati al controllo), i nostri figli manifestano le loro emozioni in modo scomposto. Quando c’è disordine nelle emozioni (pensiamo a quando uno è sotto gli effetti dell’alcol) la parte razionale del nostro cervello non funziona. E’ del tutto inutile intervenire con raccomandazioni, consigli o divieti (per punizione non farai questo o quello): ogni nostra parola viene interpretata come una minaccia. L’unica cosa che possiamo fare per aiutare i nostri figli è calmarli. Come? Per prima cosa uscire dalla stanza in cui è avvenuto il fattaccio (se loro non vogliono seguirci, usciamo noi oppure usciamo di casa, spiegando perché lo facciamo o usando uno stratagemma: es. comperare le sigarette), diamogli da bere un bicchier d’acqua, abbracciamolo… (quali sono i canali più sensibili per stabilire un contatto con i nostri figli?). Occorre uscire da un ottica educativa: se io genitore non reggo, esco. Non devo pensare che così facendo gliela do vinta. Non bisogna accettare la sfida. Non è importante chi vince! Non siamo in una situazione di normalità!!! 
Aiutami a capire. Sarebbe di grande aiuto spiegare ai nostri figli di aiutarci a capire quando stanno per avere una crisi; ad esempio accordarsi su un segnale e concordare una nostra risposta calmante.
 Nelle relazioni primarie i nostri figli hanno bisogno di sentirsi più forti, non più protetti. Nella normalità i bambini trovano piacere e conforto nell’affidarsi ai genitori. Se invece, come nel caso di molti nostri figli, la dipendenza dal genitore ha comportato situazioni di paura e spavento ecco che dentro di loro suona un campanello d’allarme che li ammonisce, ricordando loro che le posizioni di dipendenza sono pericolose, perché sono quelle che li hanno fatti stare male. Solo se io sono il più forte non ho bisogno dell’altro, così l’altro non mi può deludere. In presenza di disturbi post-traumatici da stress, le relazioni sono condizionate dal bisogno di prevalere sull’altro. La paura di dipendere dall’altro (genitore, compagno, insegnante, allenatore…) obbliga a sentirsi il più forte, a decidere sempre e solo in prima persona.
Cosa fare? Se non è una questione di vita o di morte lasciamolo vincere e se sbaglia non diciamogli mai “te lo avevo detto” . Salviamogli sempre la faccia!

Cose da ricordare:
1.       chi è stato rispettato, rispetta. Chi ha subito la violenza, usa la violenza.
2.       non siamo noi la causa della rabbia e della violenza!
3.       abbiamo un nemico comune: la sua sofferenza
4.       se fuori di casa si comporta bene, vuol dire che ha interiorizzato i nostri valori. Tranquillizziamoci!

Studio e lavoro

Quante volte ci siamo sentiti dire che nostro figlio non si impegna! E’ un fannullone? NO. E’ un fannullone chi si salva in corner, chi si mette a studiare all’ultimo minuto e ce la fa. Chi deve ripetere l’anno non è un fannullone. Ha solo paura di perdere! “Se prendo due perché non mi sono impegnato non è colpa mia. Io posso essere bravissimo (illusione) ma non te l’ho fatto vedere”. Non è un ragazzo a cui non importa nulla. Teme di non farcela e andare a vedere gli farebbe troppo male. Eppure le poche volte in cui studia e prende un bel voto è contento…ma poi dimentica. Non aiuta dirgli “studia di più”,  “non ti faccio più giocare a calcio”, “lo faccio per il tuo bene”. Non colpiamolo con un diretto allo stomaco. Non togliamogli lo sport o l’hobby in cui riesce bene: la sua autostima ha bisogno di essere sostenuta. E, al tempo stesso , non stupiamoci se sarà lui ad interrompere un’attività ricreativa in cui riesce bene: se smette all’improvviso ha paura che finisca il suo successo (abbandona lui per primo per evitare la delusione).
Il lavoro rispetto allo studio dà una soddisfazione immediata. Il lavoro è estremamente utile. Sono stufi di imparare, di stare vicino a chi ne sa di più (genitori, insegnanti, allenatori). Non vedono l’ora di vincere su qualcuno. Gli insuccessi scolastici li hanno convinti di essere meno degli altri, diversi e questo ha messo in secondo piano il beneficio psicologico conseguente alla loro riuscita in un certo settore. Il nostro compito è quello di lavorarli ai fianchi. Valorizzarli, insegnare loro ad usare al meglio le loro carte (meglio se aiutati da uno psicologo). Trovare occasioni in cui possano emergere (es. se un ragazzo cucina bene, invitare gli amici ad assaggiare i suoi piatti; trovargli un ingaggio per preparare un pranzo da conoscenti…), fargli sperimentare più attività…Non stupiamoci se i nostri figli fanno fatica a faticare: da bambini hanno sofferto molto e la loro soglia del dolore è molto bassa, mentre è molto alta la loro irritabilità: sono degli ipersensibili.
Riusciranno nella vita?

Sì, non appena avranno relazioni soddisfacenti e gratificanti sul lavoro e in campo sentimentale.