venerdì 13 febbraio 2009

Seminario CIAI Milano

Segnaliamo il seminario "Essere figli adottivi adulti" che si terrà a Milano sabato 28 marzo 2009 dalle ore 9 alle ore 13 presso la Casa della Pace in via Ulisse Dine n.7.
Durante il seminario, organizzato dal Ciai con il patrocinio della Regione Lombardia, si affronterà "L'esperienza di essere stati adottati: i diversi significati nel corso del tempo", "La ricerca di informazioni sul proprio passato" e "Il viaggio di ritorno nel Paese di nascita". La partecipazione è gratuita previa iscrizione. La scheda di adesione e il programma sono scaricabili dal sito www.Ciai.it. L'iscrizione dovrà essere inoltrata alla segreteria organizzativa all'indirizzo e-mail eventi@ciai.it oppure al numero di fax 028467715 entro il 20 marzo.

mercoledì 11 febbraio 2009

Marco Bottini. Un centro acuto per adolescenti aggressivi

Il giudice dei minorenni Reto Medici afferma che in Ticino un centro per aiutare, contenendoli, i giovani delinquenti,"non può attendere...è una priorità" (cfr. 'la Regione'6 febbraio 2009). Io, per motivi professionali, conosco il giovane "figlio adottivo", processato la scorsa settimana a Lugano per violenza e bullismo, conosco la sua famiglia e pure la vittima principale,e so quanto lutti loro, per anni, hanno sofferto. Per anni infatti questa famiglia è stata confrontata all'assenza di una struttura in cui il figlio adolescente potesse veramente essere contenuto, protetto e curato.
Negli anni Settanta, a Torricella, un centro del genere esisteva; era il cosiddetto "Centro minorile", poi è stato chiuso. Siccome però il problema della delinquenza giovanile continuava ad esistere, agli inizi degli anni ottanta è stato costituito un gruppo di lavoro cantonale (di cui facevo parte) avente lo scopo di preparare l'apertura di un nuovo centro: l'allora giudice dei minorenni, Eggenschwiler ne aveva capito l'importanza. Quando però Patrizia Pesenti subentrò alla giudicatura minorile subentrò alla giudicatura minorile, affossò il progetto: lei a questo tipo di istituzioni non credeva.
E così per decenni non si è fatto più niente, e diversi giovani molto problematici hanno continuato ad essere inseriti in istituti e foyer non idonei al loro contenimento, salvo ad essere inviati nella Svizzera interna (perciò fuori contesto culturale), nei casi più estremi.
Io non ho mai cavalcato ideologie repressive care a certa destra, né mi ritengo aggressivo in quanto a temperamento. Avendo però lavorato per decenni con ragazzi problematici, posso dire con convinzione che la mancanza di mezzi efficaci per il contenimento della prepotenza che i giovani aggressivi manifestano si traduce, oltre che in un danno per le vittime e per la società in genere, anche in un gravissimo danno per il giovane stesso, che non farà che peggiorare i suoi comportamenti. Provate a mettervi per un attimo nei panni del ragazzo che ogni giorno aggredisce qualcuno a parole e con i fatti e che, di fronte ad un adulto che interviene (genitore o educatore in un foyer, poco importa), lo manda "affa..." senza che gli succeda niente, e va avanti a comportarsi come prima.
Quel giovane si convincerà sempre di più di essere onnipotente. Se poi l'adulto, frustrato e impotente, osa minacciarlo di un ceffone, lui risponderà: "Prova a toccarmi che ti denuncio!" L'adulto, per non finire sui giornali e sotto processo, lascerà perdere, e così il giovane si sentirà ancora di più invincibile, come i bulli dei molti film o giochi elettronici che plagiano la sua mente. Concordo pienamente con Medici: un centro per gli adolescenti ingestibili nelle normali "strutture aperte", in Ticino è indispensabile, perché è l'unico modo per far sentire al giovane che esiste qualcosa e qualcuno che ü più forte della sua aggressività, che finisce a contenerla e che gli impedisce di scappare quando e come vuole. Soltanto quando il suo bisogno di fare il bullo non potrà più esprimersi liberamente, il giovane sarà in grado di concentrare le proprie energie in altri campi, potrà imparare un mestiere e fare delle esperienze positive e valorizzanti,
Perciò non si perda ulteriore tempo!


Pubblicato su "la Regione Ticino" dell'11 febbraio 2009

Niente di personale

In Ticino non esiste una casistica aggiornata del disagio adottivo e manca un servizio di pronto intervento specialistico in caso di crisi. Ritrovare sulla stampa ticinese la proposta dell’avv. Reto Medici, magistrato dei minorenni, di creare, in tempi brevi, una struttura di “pronta emergenza” per aiutare e contenere gli adolesenti problematici ed aggressivi ci fa sentire meno soli. Restiamo d'altra parte in attesa di poterne valutare la portata e l'adeguatezza allorché verranno rese note le sue caratteristiche e la sua organizzazione.
Tutti noi abbiamo cercato di “indirizzare”, “aiutare e “contenere” i nostri figli e di trovare soluzioni; “non siamo di quelli che pretendono e basta”.
Le espressioni virgolettate sono riprese dalla lettera indirizzata a “la Regione Ticino” - e pubblicata venerdì 6 febbraio - dalla mamma del ragazzo adottivo processato a Lugano per bullismo e violenza. È una mamma provata da anni di lotte, ma soprattuttto è un' amica, è una di noi; lei e il marito hanno deciso di non mollare, di continuare ad impegnarsi giorno dopo giorno.
Pubblichiamo anche noi il testo della lettera e ne facciamo il nostro manifesto.

Sono la mamma del ragazzo processato ieri a Lugano per violenze.
Voglio esprimere il mio dolore. Non quello privato, famigliare, intimo.
Ma un dolore che deve essere espresso socialmente.
Quello che è stato scritto sui giornali è vero, con varie sfumature.
Cronaca.
Dopo c’è tutto il resto.
Non sapevamo quello che faceva nostro figlio all’esterno.
Quando abbiamo intuito e poi subìto noi stessi, siamo intervenuti per farlo fermare.
E’ importante: evidentemente non voglio giustificare, ma far capire.
La nostra è una lunga storia di difficoltà, tentativi, ricerca di aiuti, disorientamento. Anche gioie, per carità; ma da tempo e per ora non prevalgono più.
La nostra famiglia è andata avanti grazie alla nostra tenacia, all’aiuto degli amici, all’incontro con alcune “perle rare” impegnate nel sociale che si sono aperte alla comprensione, al gruppo di genitori adottivi con cui ci incontriamo.
Non abbiamo abbandonato nostro figlio, abbiamo cercato di indirizzarlo, aiutarlo, contenerlo.
I giornali scrivono “figlio adottivo”. Adottivo o meno è sempre figlio, profondamente e completamente.
Però l’adozione è giusto nominarla; ma per un altro motivo, che - una volta detto - sembra evidente: prima dell’adozione c’è l’abbandono. Per povertà, ignoranza, superficialità, disperazione, problemi sociali o di salute, rifiuto. Tanti possono essere i motivi, ma comunque per chi è stato abbandonato sono incomprensibili e spesso devastanti.
Tanti sono i ragazzi adottati in difficoltà e di conseguenza i loro genitori.
Stiamo cercando di arrivare alla consapevolezza di questo, fra le famiglie in difficoltà e con le istituzioni. Creare la “cultura dell’adozione” per intervenire quando ce ne sia bisogno.
Il debriefing è ormai pratica comune quando accadono avvenimenti di forte stress. Come è giusto!
Ma allora forse bisognerebbe avere anche un occhio discreto e sensibile verso i bambini che hanno subìto un’esperienza tanto traumatica, un sostegno ai genitori che ne sentano il bisogno.
Per ora, quando i problemi esplodono, cosa succede? Prima di tutto, una distinzione fra sotto e sopra i 18 anni. Come se problemi e persone non fossero sempre gli stessi.
E poi? Tentativi nelle strutture a disposizione, che dopo un po’ “dimettono” perché non adatte alla casistica.
Comprensibile. Però di questi ragazzi che ne facciamo?!
Una volta ci hanno detto che nostro figlio non rientrava in nessuna categoria: non delinqueva, non era tossico, non era psichiatrico. Nessuno ha risposto alla mia domanda: “dobbiamo aspettare che sia inquadrato in una di queste categorie? non si può aiutarlo prima?”.
E a questo punto non siamo più nella definizione “adottati”. Qui siamo nel campo dei ragazzi o delle persone in difficoltà e senza un aiuto adeguato.
Mio figlio ha perseguitato e colpito un ragazzo minorenne in difficoltà. Anche lui una vita di tentativi, di istituti, fallimenti e poi ............ una sistemazione in un garni, l’accompagnamento di un tutore bravo, ma che deve occuparsi di altre decine di casi.
Il mio dolore, profondo e disperato, va anche a questo ragazzo, alla sua sofferenza, alla sua solitudine.
Pochi anni fa, è stato dichiarato che i casi problematici si potevano contare sulle dita delle mani. Già allora in parecchi siamo rimasti stupiti da questa minimizzazione.
Ma ora il numero dei “casi” è decisamente e chiaramente aumentato, come sembra aumentare l’impotenza di chi se ne dovrebbe occupare.
Non ci sono strutture in Ticino. Bisogna andare in Svizzera francese o tedesca e bisogna conoscere un po’ la lingua, se hanno posto, se accettano, se se se ..........
Ho come la sensazione che la società cambi, ma lo stato non riesca a star dietro al cambiamento.
Ci sono gruppi di studio, proposte, approfondimenti.
SCUSATE: noi (e intendo evidentemente non solo la mia famiglia, ma tutti quelli che sono nelle stesse condizioni problematiche) abbiamo bisogno subito di un aiuto concreto, che poteva essere programmato già da anni, come del resto richiesto da anni da non pochi operatori.
In tutti questi anni difficili per la mia famiglia, ci siamo impegnati come potevamo per cercare soluzioni. Non siamo di quelli che pretendono e basta.
Pensiamo anche che sia fondamentale la solidarietà e l’aiuto fra persone, fra amici. E’ quello che abbiamo ricevuto e dato. Continueremo a impegnarci.
Ma a volte non basta.
Questa mia lettera non vuole essere nel modo più assoluto polemica. Vuole esprimere le mie riflessioni e i miei sentimenti, soprattutto a quanti possono capirli perché li vivono loro stessi in prima persona.

martedì 10 febbraio 2009

È capitato anche a voi?

Alcuni comportamenti dei nostri figli ci risultano incomprensibili e ci spaventano. Spesso ci sentiamo in difficoltà a parlarne con altri genitori. Come si fa ad ammettere che il proprio figlio ruba oppure che compie atti di vandalismo oppure che è aggressivo in famiglia e, ancor più grave, non sembra dimostrare un serio ravvedimento, al punto da farci dubitare che in futuro eviterà di ripetere azioni tanto riprovevoli?
Diciamo subito che non sono pochi i genitori adottivi alle prese con questi problemi. Ognuno poi reagisce a suo modo: alcuni minimizzano, altri ne fanno un dramma ma penso che tutti alla fine si chiedano: “Perché proprio a me? Dove ho sbagliato? E adesso cosa faccio?”. Ma è corretto parlare di sbaglio?

Il testo riportato qui sotto è di Donald W. Winnicott: è una sua conferenza del 1956 (!) pubblicata nel libro postumo Il bambino deprivato, Cortina ed.,1986.

“Un’amica mi chiese di discutere il caso di suo figlio, il maggiore di quattro bambini (…); egli rubava a piene mani sia nei negozi sia in casa.(…) Le spiegai dunque il significato del furto e le suggerii di trovare il momento adatto, nel suo rapporto con il bambino, per interpretarglielo. Ogni sera lei e John ( così si chiamava il figlio) godevano di una buona, reciproca intesa per alcuni minuti, dopo che il bambino era andato a letto. Di solito, in quei momenti, a lui piaceva parlare delle stelle e della luna. Questo poteva essere il momento adatto. Dissi: - Perchè non spiegargli che lei sa che quando ruba non vuole le cose che ruba, ma è alla ricerca di qualcosa a cui ha diritto, che reclama dalla madre e dal padre questo qualcosa perché sente di essere deprivato del loro amore? -.
(…) Qualche tempo dopo ricevetti una lettera dalla madre che mi diceva di aver seguito il mio suggerimento (…). - Gli ho detto che ciò che egli desiderava veramente rubare, quando rubava denaro, cibo e oggetti, era la sua mamma. Devo dire che non mi aspettavo davvero che capisse, ma sembrò invece comprendere. Gli ho chiesto se pensava che non gli volessimo bene perché qualche volta era cattivo, ed egli mi ha subito risposto che era vero, che non credeva che gli volessimo molto bene. Povero piccino! Non posso dirle come sono rimasta male. Ho detto a John di non dubitare mai, mai più, e se gli fossero venuti dei dubbi, di ricordarmi di ricordarglielo. Ma naturalmente per lungo tempo non avrò bisogno che me lo ricordi: è stato un tale colpo per me! Sembra quasi che si abbia bisogno di tali colpi. E così cerco di dimostrargli di più il mio affetto in modo da impedirgli di poterne dubitare ancora. Fino ad oggi non si sono più verificati furti -.
La madre aveva parlato con l’insegnante spiegandole che il bambino aveva bisogno di affetto e stima, e aveva ottenuto la sua collaborazione anche se il bambino era molto difficile a scuola.
Ora, dopo otto mesi, è possibile affermare che non si è più verificato nessun ritorno del furto, e che il rapporto tra il bambino e la sua famiglia è notevolmente migliorato.
(…) Ciò che feci, quindi, ebbe l’effetto di una doppia terapia perché permise a questa giovane donna di comprendere a fondo le sue difficoltà attraverso l’aiuto che fu in grado di offrire a suo figlio. Quando diamo una mano ai genitori a essere di aiuto ai propri figli, in realtà sono i genitori stessi che noi aiutiamo”.

L’esempio citato non riguarda un bambino adottivo. Winnicott usa l’aggettivo deprivato per riferirsi a bambini a cui improvvisamente viene a mancare la continuità di cura garantita dalla madre perché costretta ad abbandonare i propri figli per salvarli dai bombardamenti in tempo di guerra, oppure perché costretta a un lungo ricovero in ospedale, o nel caso di un affidamento o di una adozione o altro ancora. Poichè il legame con la madre viene interrotto in un momento in cui il bambino non ha gli strumenti per capire che cosa gli stia succedendo, egli è vittima di una specie di “black out” emozionale che lo espone ad un’”impensabile angoscia”. La deprivazione può causare effetti devastanti e l’aggressività, sia che si manifesti nel rubare, nel mentire, nel distruggere o altro, non è superata dal desiderio di riparare il danno, di costruire e di assumersi delle responsabilità; processi che il bambino non ha potuto elaborare in assenza di un ambiente stabile e sicuro.
Fortunatamente, sempre secondo Winnicott, le azioni dei nostri figli, che tanto ci spaventano, sono dei segnali di speranza perché sopraggiungono quando essi ritrovano fiducia nella nuova famiglia. Naturalmente è un processo inconscio e non è un caso che essi finiscano per fare del male proprio alle persone che più amano. “Il comportamento antisociale a volte non è altro che un SOS per ottenere il controllo da parte di persone forti, amorevoli e sicure (…). Il bambino normale, aiutato nelle fasi iniziali dalla propria famiglia, sviluppa la capacità di controllare se stesso. Sviluppa ciò che è talvolta chiamato ambiente interno, con la tendenza a trovare un buon ambiente. Il bambino antisociale (…) non avendo avuto la possibilità di far crescere un buon ambiente interno, ha assolutamente bisogno di un controllo dall’esterno per essere contenuto e poter giocare e lavorare”.