sabato 4 giugno 2011

Formazione e aiuto reciproco



"Adottare significa camminare sul filo del rasoio e i primi passi si fanno ad occhi chiusi"


(San Paolo- Brasile, novembre 1994. Frammenti di un discorso ascoltato per strada)

In questi ultimi dieci anni, grazie al contributo di numerosi studi sull’adozione, soprattutto in area anglosassone, molte certezze sono state messe in discussione. Una generazione fa si pensava che l’inserimento dei bambini nella nuova famiglia avrebbe risolto ogni problema. L’adozione veniva spesso paragonata ad una nuova nascita, che avrebbe di fatto cancellato tutte le esperienze precedenti. Educare un figlio adottivo non avrebbe comportato problemi particolari né differenze rispetto a quanto ogni genitore avrebbe fatto per i propri figli: stessi problemi, stesse cure. Le eventuali difficoltà o criticità sarebbero state equamente ripartite tra la famiglia (giudicata inadeguata o incapace) e i bambini (considerati ribelli o irriconoscenti). Nessun sostegno o terapia ad hoc: la mancanza di amore avrebbe spiegato gli eventuali fallimenti. Secondo questo modello adottivo poca o nessuna importanza aveva la storia pregressa del bambino e le sue origini erano di fatto cancellate.

Oggi, ma è un discorso iniziato alla fine degli anni 70, l’adozione non è più vista come una seconda nascita, in grado di cancellare l’esperienza dolorosa legata all’abbandono. La “ferita primaria” (Nancy Newton Verrier, La ferita primaria. Comprendere il bambino adottato. il Saggiatore 2008) prodotta sui bambini dalla perdita della mamma biologica lascia delle cicatrici indelebili, che possono riaprirsi all’improvviso, anche a distanza di anni dal nuovo inserimento famigliare. Raramente i neo-genitori sono a conoscenza della complessità dei problemi che dovranno affrontare e maturano la convinzione di poter da soli superare ogni difficoltà. Non è così che funziona!

I figli adottivi, privati nella primissima infanzia di una guida sicura che offre protezione, comprensione e tenerezza, sono bambini o ragazzi traumatizzati con cui non è facile entrare in relazione e riuscire a creare un legame di appartenenza saldo e appagante. La loro storia, che spesso non conosciamo e che molti giudici si ostinano a tenere per sé, nella falsa convinzione di aiutarci, non appartiene solo ai nostri figli, ma entra a far parte della nostra vita. Poco importa se i bambini hanno ricordi, storie da raccontare e condividere, oppure solo tracce, sensazioni, emozioni che non riescono a verbalizzare o, addirittura, una sola grande amnesia: un buco nero,"un fuoco che può esplodere all'improvviso e divorarti" (vai a giovedì 21 maggio 2009). Ciò che li accomuna è la convinzione di vivere in un mondo ostile, in cui dovranno cavarsela da soli, con la sola certezza di non appartenere a nessuno.

Il nostro compito è quello di aiutarli a dare un nome alle loro emozioni, a calmare le loro ansie, a ritrovare la fiducia. Ḗ un lavoro estremamente gravoso che ci accompagnerà negli anni e che ci farà sentire spesso inadeguati e soli. Adottare un figlio vuol dire, infatti, farsi carico di tutti i suoi problemi: autostima zero, totale sfiducia nei confronti degli adulti, schemi relazionali disturbati, rapporto conflittuale con le nuove figure che rappresentano l’autorità (genitori, insegnanti, ecc...). Prendersi cura dei figli, spesso, significa curarli, ovvero svolgere mansioni che sono una via di mezzo tra il genitore e il terapeuta. Ḗ un compito difficilissimo, perché spesso abbiamo a che fare con delle strategie comportamentali e relazionali a noi sconosciute, che non capiamo, che spesso dobbiamo sanzionare senza cedimenti, correndo il rischio di interrompere la comunicazione.

Ecco le ragioni della nostra richiesta di revisione del modello cantonale di preparazione delle famiglie che desiderano adottare un bambino. Sulla base della nostra esperienza riteniamo prioritario far sapere, da subito, ai futuri genitori con quali problemi dovranno confrontarsi e quali incognite dovranno fronteggiare. Non vogliamo scoraggiare nessuno, bensì aumentare la consapevolezza di chi si accinge a fare questa scelta e segnalare che, oltre alle numerose gioie e gratificazioni, si potranno incontrare altrettante difficoltà, che impegneranno non solo il bambino ma tutta la famiglia.

Il trauma della perdita, le fragilità insite nel nuovo legame affettivo, il senso di estraneità vissuto all’interno della nuova famiglia, i comportamenti di adattamento al trauma subito (apparente docilità oppure eccessiva aggressività) sono solo alcuni dei temi che andrebbero affrontati nella fase pre-adottiva. E il confronto con i genitori già collaudati da esperienze “forti”, che non hanno tolto loro entusiasmo e speranza, potrà avere la funzione di valido supporto alla preparazione fornita dalle assistenti sociali. I vantaggi così ottenuti sarebbero molteplici: abituare le coppie in attesa ad interagire tra loro, a non isolarsi, ad affrontare insieme i problemi e, grazie all’esperienza di chi è più avanti nel percorso adottivo ( in molti casi si tratta di un’esperienza pluridecennale), capire per tempo i segni premonitori di comportamenti su cui si dovrà lavorare, senza cadere in facili allarmismi o pericolose banalizzazioni.

Il sostegno alle famiglie dovrebbe, inoltre, essere esteso alle più importanti tappe del percorso adottivo: la scuola, l'adolescenza, il mondo del lavoro e alle situazioni di improvvisa e grave emergenza. Non stiamo parlando di un accompagnamento giorno per giorno, ma della possibilità di poter far capo, in tempi rapidi, a un' équipe di professionisti con una preparazione specifica in adozione, in grado di sostenere la famiglia ed evitare che le relazioni disturbate trovino terreno fertile su cui mettere le radici.

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