domenica 5 agosto 2012

Catherine Sellenet, “Souffrances dans l’adoption. Pistes pour accompagner les adoptés et les adoptants”, De Boeck (2009).


Segnaliamo il libro di Catherine Sellenet, professore di scienze dell’educazione, ricercatrice all’ Università di Nantes (Labécd), e ricercatrice associata a Parigi X. È una riflessione sull’adozione, o meglio sulle adozioni difficili.

Ciò che contraddistingue l’analisi della Sellenet è l’atteggiamento sempre critico; il non cercare di spiegare tutto a tutti i costi restando prigioniera di griglie teoriche precostituite; la ricerca di nuove piste per capire meglio; l’attenzione alla singolarità di ogni storia e alle capacità di resilienza (la capacità di resistere ai traumi e di riprogettarsi positivamente) di ogni bambino/ragazzo ferito; l’attenzione allo smarrimento delle famiglie, spesso ostaggi di correnti di pensiero contrapposte e di operatori sociali che antepongono il giudizio alla comprensione.

L’obiettivo è quello di individuare i fattori di rischio e le loro combinazioni, che possono riguardare la storia del bambino, la preparazione all’adozione, la scelta della famiglia adottiva, la procedura di abbinamento, le dinamiche relazionali e altro ancora e tracciare delle nuove “pistes de réflexion”.

Parlare di adozioni difficili vuol dire affrontare un’estrema varietà di problematiche e di sintomi, ma soprattutto fare i conti con una grande sofferenza e solitudine. 

La Sellenet, utilizzando la teoria del trauma, dell’attaccamento e dell’identità, pone alcune domande che ci arrivano dritte al cuore: tutti i bambini sono adottabili?; tutti i bambini desiderano essere adottati?; l’adozione è sempre la terapia migliore?; si può chiedere ai genitori di diventare terapeuti dei propri figli?; cosa sappiamo noi dei ricordi di questi bambini, della loro sofferenza, delle loro esperienze intime che sembrano appartenere più alla sfera dell’indicibile?

Nonostante “le poids des traumatismes, l’ampleur des symptômes, des préparations insuffisantes… Tout est souvent connu avant l’adoption, les symptômes sont souvent là mais tout se passe comme si l’adoption devait magiquement résoudre ces problemes”. Quando i sintomi persistono o esplodono si propone ai genitori di aspettare. “ -Il faut donner du temps au temps – disait Miguel de Cervantès, il semble que certains en aient fait leur adage. (…) Nous pouvon aussi nous demander si cet appel au temps et à la patience ne masque pas une impuissance à répondre cliniquement aux questions existentielles posées par ces enfants” (op. cit. pag.44, il grassetto è nostro).

Esiste una sintomatologia dei bambini/ragazzi adottati?

Ecco un’altra domanda difficile che sicuramente molti di noi si sono posti. L’autrice spiega che sarebbe “azzardata” una risposta affermativa perché “les syntômes carentiels sont aussi présents chez les enfants institutionnalisés, et que les pratiques addictives, les passages à l’acte, les fugge, les décrochages scolaires se retrouvent dans toutes les populations enfantines, sans qu’il soi besoin de chercher une origine biolographique d’abandon” (op. cit. pag.84). Tuttavia ciò che colpisce negli adottati è “la pluralité des synthômes et surtout leur caractère esplosif, démultiplié” che raggiunge la massima espressione con l’arrivo dell’adolescenza. [1] “L’adpption joue souvent un rôle d’amplificateur fantasmatique.

Citando Jacques Lacan (“Le symptôme est une métaphore que l’on veuille ou non se le dire”), l’autrice si chiede che cosa ci vogliono dire questi bambini e quali domande si pongono. Chi sono? è la domanda chiave legata alla ricerca della propria identità; chi vi dà il diritto di riaprire le mie ferite? è, invece, una domanda rivolta a noi adulti, genitori e operatori sociali.

Non è facile darsi un’identità. La risposta alla domanda chi sono? muta nel corso degli anni, sulla base delle diverse esperienze e dei nuovi ruoli assunti in famiglia e nella società. Nel caso dei figli adottivi c’è il pericolo che certi bambini, ma anche certi ragazzi e certi adulti, rimangano fermi ad un’unica immagine irrigidita di loro stessi, che li imprigiona in un ruolo predefinito: quello di bambino abbandonato; quello di bambino di nessuno; quello di bambino adottato; quello di bambino abbandonato-adottato. “L’enfant adopté peut en effet se prèvaloir de quatre catégories d’identifications, il a le choix entre plusieurs soi possibile, entre plusieurs identités. Nous pouvons en proposer d’emlée quatre, sans que cette liste soit exhaustive” (op. cit. pag.87).
Certamente il nostro compito di genitori è quello di sostenere i nostri figli nella ricerca della loro identità, evitando di usare l’abbandono come unica griglia di lettura. Certamente la ferita (il trauma) dell’abbandono condiziona la vita dei nostri ragazzi, ma poi occorre tenere conto di tanti altri fattori che possono ostacolare o favorire la loro crescita fisica, psichica ed emotiva.

Trauma e traumatismo

“Mais savons-nous traiter les traunatismes?”; “Avons-nous mis en place des structures d’accompagnement dignes de ce nom?” Domanda semplici che mettono a nudo l’insufficienza della formazione degli operatori e delle strutture di accoglienza. “À l’évidence, la réponse est négative. Nous ne proposons souvent que des admissions en instituts de rééducation, voire en centres fermés, pour des enfants qui rèlevent d’une clinique de soins. Quand ces memes structures ont également trouvé leurs limites, nous restituons aux parents adoptifs leurs enfants, des enfants don’t certains parents ont peur sans toujours oser le dire”(op. cit. pag.97, il grassetto è nostro).

Sono le madri a trovarsi in maggiore difficoltà (2/3 dei casi) e a subire atti di vera e propria violenza fisica e/o verbale da parte dei figli. Queste esperienze possono innescare comportamenti brutali anche da parte del genitore, che dichiara di non riconoscersi più, di avere paura della propria carica aggressiva, improvvisamente fuori controllo: “(…) Je me suis vue hors de moi, ne plus pouvoir me controller! Se dévaloriser à ce point! C’est ce que l’on reproche le plus à ces enfants, de nous métamorphoser.” (op. cit. pag.119). L’aggressività è una delle componenti essenziali della sindrome dell’abbandono e può manifestarsi in modi diversi e opposti. Riprendendo la tipologia di Germaine Guex, l’autrice sottolinea due tipi di soggetti abbandonici: positivo-affettuoso, alla continua ricerca (sempre delusa) d’affetto e negativo-aggressivo, ossessionato dalle frustrazioni del passato. Tra questi due estremi, “l’asservissement aux autres et l’asservissement des autres”, esiste un’infinita gamma di sfumature. La paura di essere giudicati e non capiti fa sì che molti genitori non parlino di questi problemi e preferiscano isolarsi, senza chiedere aiuto né per sé né per i figli: considerano le difficoltà un problema “privato”, da risolversi dentro le mura domestiche. Anche da parte delle istituzioni e degli operatori è ancora forte “la tentation (…) de refermer la porte sur l’intimité (della famiglia)”. È più che legittimo il sospetto che dietro questa difesa a oltranza della privacy si nasconda, invece, l’incapacità di farsi carico dei problemi delle famiglie.

Gli errori istituzionali

Ben 1/3 dei casi esaminati rivelano carenze da parte dei servizi e delle istituzioni e ripropongono la questione dell’insufficiente preparazione delle coppie e dei bambini (soprattutto dai due anni in su). Manca una riflessione sulla genitorialità adottiva, che andrebbe affrontata proprio a scopo preventivo, per scongiurare i casi di genitorialità “assente”, “difettosa”, “patologica” o “ostacolata” da forti contrasti tra coniugi.
Da parte dei genitori viene lamentata una vera e propria “omertà” degli operatori sulle difficoltà da affrontare e, soprattutto, sulle patologie di alcuni adottandi. Il genitore che chiede aiuto viene facilmente messo in croce. Per prima cosa lo si giudica inadeguato; poi, se chiede o accetta l’inserimento temporaneo del figlio in un centro di sostegno, lo si esclude da qualsiasi forma di collaborazione terapeutica. “Ce sont des services qui ont généralement affaire à des parents démunis et qui en abusent. Les parents adoptifs sont enbêtants. Si un jour on écrit un livre de cette histoire, on l’appellera: rapt legalise” (testimonianza di un genitore adottivo. Op. cit. pag.152). Esistono alternative? Sì ma difficilmente vengono praticate! Nel 38% dei casi l’allontanamento è giudiziario, nel 19% amministrativo: quindi nel 57% dei casi i bambini vengono allontanati dalla famiglia. Si tratta di un allontanamento temporaneo: ma fino a quando? Manca una strategia di intervento mirata, in grado di diversificare i singoli interventi, incominciando dal sesso dell’adottato o della sua nazionalità.

“Piste” per una politica di prevenzione

Non si deve scommettere, scrive l’autrice, sulla dimensione terapeutica dell’adozione. Occorre accompagnare, sostenere la famiglia e soprattutto informarla dei rischi che corrono i bambini maltrattati di presentare disturbi nella sfera intellettuale e affettivo-comportamentale. “On ne peut demander aux parents adoptifs d’endosser cette visée thérapeutique qui n’est pas de leur ressort. (…) Le passé parfoit chaotique de certains enfants reste toujours présente et peut venir entraver les perspectives de développement et d’adaptation. Pour chaque adoption, le poids de la vulnérabilité de ces enfants est à apprécier” (Op. cit. pag.160). Occorre informare i genitori sui fattori di rischio e di resilienza; sulle conseguenze della rottura del legame di attaccamento; sulle fantasticherie dei bambini adottati (“Que sait-on du parent imaginaire de l’enfant adoptable?”); sul possibile rifiuto dei nuovi genitori; sulle paure legate alla nuova esperienza; sui segni che indicano la progressiva integrazione nella nuova famiglia. Occorre investire sulla formazione degli operatori sociali e dare risposte alle famiglie che chiedono:

·         l’istituzione di un padrinato, ovvero di una figura di riferimento (un adottato adulto) con funzione di sostegno per i  più giovani;
·         la creazione di una rete capillare di associazioni di mutuo aiuto per bambini adottati;
·         l’accompagnamento obbligatorio per i nuovi genitori adottivi;
·         la creazione di un osservatorio della crescita dei bambini;
·         la collaborazione con i servizi di psichiatria presenti sul territorio;
·         la collaborazione con le associazioni di intermediazione, affinché siano più vigili sulle falsificazioni che riguardano l’età dei bambini, la loro storia e i traumi subiti;
·         l’istituzione di una commissione di riflessione sull’adozione, in cui tutti i soggetti siano rappresentati;
·         la predisposizione, all’interno dei servizi che si occupano di adozione, di uno spazio di ascolto per i genitori in difficoltà.


“La liste des propositions n’est pas close et chacun se saisira à sa guise des pistes suggérées, mais cette liste montre qu’une dynamique est possible, non pas pour éradiquer les difficultés, mais au moins tirer les leçons des situations douloureuses qui existent (Op. cit. pag.180).  


[1] Su un campione di 317 bambini esaminati, presi a carico dall’Assistenza sociale all’infanzia, solo il 7% non presenta alcun disturbo; negli altri sono presenti uno o più disturbi: 47% disturbi d’apprendimento, 35% comportamenti aggressivi, 34% fughe, 29% eccessiva agitazione, 24% furti. Il disagio esistenziale può portare a processi regressivi (25%), depressione (24%), confusione mentale (13%) e suicidi (12%). Un terzo dei genitori affermano che questi problemi sono incominciati con l’arrivo del bambino, il 20% dopo i primi cinque anni, quasi il 27% tra i due e i cinque anni successivi all’adozione. Due terzi dei bambini accolti nella struttura pubblica hanno più di 12 anni, solo il 6% ha meno di quattro anni.

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