Segnaliamo il libro di Catherine Sellenet, professore di
scienze dell’educazione, ricercatrice all’ Università di Nantes (Labécd), e ricercatrice
associata a Parigi X. È una riflessione sull’adozione, o meglio sulle adozioni
difficili.
Ciò che contraddistingue l’analisi della Sellenet è l’atteggiamento
sempre critico; il non cercare di spiegare tutto a tutti i costi restando
prigioniera di griglie teoriche precostituite; la ricerca di nuove piste per capire meglio; l’attenzione
alla singolarità di ogni storia e alle capacità di resilienza (la capacità di resistere
ai traumi e di riprogettarsi positivamente) di ogni bambino/ragazzo ferito;
l’attenzione allo smarrimento delle famiglie, spesso ostaggi di correnti di
pensiero contrapposte e di operatori sociali che antepongono il giudizio alla comprensione.
L’obiettivo è quello di individuare i fattori di rischio e
le loro combinazioni, che possono riguardare la storia del bambino, la
preparazione all’adozione, la scelta della famiglia adottiva, la procedura di
abbinamento, le dinamiche relazionali e altro ancora e tracciare delle nuove “pistes de réflexion”.
Parlare di adozioni difficili vuol dire affrontare
un’estrema varietà di problematiche e di sintomi, ma soprattutto fare i conti
con una grande sofferenza e solitudine.
La Sellenet, utilizzando la teoria del trauma,
dell’attaccamento e dell’identità, pone alcune domande che ci arrivano dritte
al cuore: tutti i bambini sono adottabili?; tutti i bambini desiderano essere
adottati?; l’adozione è sempre la terapia migliore?; si può chiedere ai
genitori di diventare terapeuti dei propri figli?; cosa sappiamo noi dei
ricordi di questi bambini, della loro sofferenza, delle loro esperienze intime
che sembrano appartenere più alla sfera dell’indicibile?
Nonostante
“le poids des traumatismes, l’ampleur des symptômes, des préparations
insuffisantes… Tout est souvent connu avant l’adoption, les symptômes sont
souvent là mais tout se passe comme si l’adoption devait magiquement résoudre
ces problemes”. Quando
i sintomi persistono o esplodono si propone ai genitori di aspettare. “
-Il faut donner du temps au temps –
disait Miguel de Cervantès, il semble que certains en aient fait leur adage. (…)
Nous pouvon aussi nous demander si cet
appel au temps et à la patience ne masque pas une impuissance à répondre
cliniquement aux questions existentielles posées par ces enfants” (op. cit.
pag.44, il grassetto è nostro).
Esiste una
sintomatologia dei bambini/ragazzi adottati?
Ecco un’altra domanda difficile che sicuramente molti di
noi si sono posti. L’autrice spiega che sarebbe “azzardata” una risposta affermativa perché “les syntômes carentiels
sont aussi présents chez les enfants institutionnalisés, et que les pratiques
addictives, les passages à l’acte, les fugge, les décrochages scolaires se
retrouvent dans toutes les populations enfantines, sans qu’il soi besoin de
chercher une origine biolographique d’abandon” (op. cit. pag.84). Tuttavia ciò che colpisce negli adottati è “la
pluralité des synthômes et surtout leur caractère esplosif, démultiplié” che
raggiunge la massima espressione con l’arrivo dell’adolescenza. [1]
“L’adpption joue souvent un rôle d’amplificateur
fantasmatique”.
Citando Jacques Lacan (“Le symptôme est une métaphore que l’on veuille ou non se le dire”),
l’autrice si chiede che cosa ci vogliono dire questi bambini e quali domande si
pongono. Chi sono? è la domanda
chiave legata alla ricerca della propria identità; chi vi dà il diritto di riaprire le mie ferite? è, invece, una
domanda rivolta a noi adulti, genitori e operatori sociali.
Non è facile darsi un’identità. La risposta alla domanda chi sono? muta nel corso degli anni,
sulla base delle diverse esperienze e dei nuovi ruoli assunti in famiglia e
nella società. Nel caso dei figli adottivi c’è il pericolo che certi bambini,
ma anche certi ragazzi e certi adulti, rimangano fermi ad un’unica immagine
irrigidita di loro stessi, che li imprigiona in un ruolo predefinito: quello di
bambino abbandonato; quello di bambino di nessuno; quello di bambino adottato;
quello di bambino abbandonato-adottato. “L’enfant adopté peut en effet se
prèvaloir de quatre catégories d’identifications, il a le choix entre plusieurs
soi possibile, entre plusieurs identités. Nous pouvons en proposer d’emlée
quatre, sans que cette liste soit exhaustive” (op. cit. pag.87).
Certamente il nostro compito di genitori è quello di
sostenere i nostri figli nella ricerca della loro identità, evitando di usare l’abbandono come unica
griglia di lettura. Certamente la ferita (il trauma) dell’abbandono
condiziona la vita dei nostri ragazzi, ma poi occorre tenere conto di tanti
altri fattori che possono ostacolare o favorire la loro crescita fisica,
psichica ed emotiva.
Trauma e traumatismo
“Mais savons-nous traiter les traunatismes?”;
“Avons-nous mis en place des structures d’accompagnement dignes de ce nom?”
Domanda semplici che
mettono a nudo l’insufficienza della formazione degli operatori e delle
strutture di accoglienza. “À l’évidence, la réponse est
négative. Nous ne proposons souvent que des admissions en instituts de
rééducation, voire en centres fermés, pour des enfants qui rèlevent d’une clinique
de soins. Quand ces memes structures ont
également trouvé leurs limites, nous restituons aux parents adoptifs leurs
enfants, des enfants don’t certains parents ont peur sans toujours oser le dire”(op.
cit. pag.97, il grassetto è nostro).
Sono le madri a trovarsi in maggiore difficoltà (2/3 dei
casi) e a subire atti di vera e propria violenza fisica e/o verbale da parte
dei figli. Queste esperienze possono innescare comportamenti brutali anche da
parte del genitore, che dichiara di non riconoscersi più, di avere paura della
propria carica aggressiva, improvvisamente fuori controllo: “(…) Je
me suis vue hors de moi, ne plus pouvoir me controller! Se dévaloriser à ce
point! C’est ce que l’on reproche le plus à ces enfants, de nous métamorphoser.”
(op. cit. pag.119).
L’aggressività è una delle componenti essenziali della sindrome dell’abbandono
e può manifestarsi in modi diversi e opposti. Riprendendo la tipologia di
Germaine Guex, l’autrice sottolinea due tipi di soggetti abbandonici:
positivo-affettuoso, alla continua ricerca (sempre delusa) d’affetto e
negativo-aggressivo, ossessionato dalle frustrazioni del passato. Tra questi
due estremi, “l’asservissement aux autres et l’asservissement des autres”, esiste un’infinita gamma di sfumature. La paura di essere giudicati e non
capiti fa sì che molti genitori non parlino di questi problemi e preferiscano
isolarsi, senza chiedere aiuto né per sé né per i figli: considerano le difficoltà
un problema “privato”, da risolversi dentro le mura domestiche. Anche da parte
delle istituzioni e degli operatori è ancora forte “la tentation (…) de
refermer la porte sur l’intimité (della famiglia)”. È più che legittimo il
sospetto che dietro questa difesa a oltranza della privacy si nasconda, invece,
l’incapacità di farsi carico dei problemi delle famiglie.
Gli errori
istituzionali
Ben 1/3 dei casi esaminati rivelano carenze da parte dei
servizi e delle istituzioni e ripropongono la questione dell’insufficiente
preparazione delle coppie e dei bambini (soprattutto dai due anni in su). Manca
una riflessione sulla genitorialità adottiva, che andrebbe affrontata proprio a
scopo preventivo, per scongiurare i casi di genitorialità “assente”,
“difettosa”, “patologica” o “ostacolata” da forti contrasti tra coniugi.
Da parte dei genitori viene lamentata una vera e propria
“omertà” degli operatori sulle difficoltà da affrontare e, soprattutto, sulle patologie di alcuni adottandi. Il genitore che chiede aiuto viene facilmente messo in
croce. Per prima cosa lo si giudica inadeguato; poi, se chiede o accetta
l’inserimento temporaneo del figlio in un centro di sostegno, lo si esclude da
qualsiasi forma di collaborazione terapeutica. “Ce sont
des services qui ont généralement affaire à des parents démunis et qui en abusent.
Les parents adoptifs sont enbêtants. Si un jour on écrit un livre de cette histoire, on
l’appellera: rapt legalise” (testimonianza di un genitore adottivo. Op. cit.
pag.152). Esistono alternative? Sì ma difficilmente vengono praticate! Nel 38%
dei casi l’allontanamento è giudiziario, nel 19% amministrativo: quindi nel 57%
dei casi i bambini vengono allontanati dalla famiglia. Si tratta di un allontanamento
temporaneo: ma fino a quando? Manca una strategia di intervento mirata, in
grado di diversificare i singoli interventi, incominciando dal sesso
dell’adottato o della sua nazionalità.
“Piste” per una
politica di prevenzione
Non si deve scommettere, scrive l’autrice, sulla
dimensione terapeutica dell’adozione. Occorre accompagnare, sostenere la
famiglia e soprattutto informarla dei rischi che corrono i bambini maltrattati
di presentare disturbi nella sfera intellettuale e affettivo-comportamentale. “On
ne peut demander aux parents adoptifs d’endosser cette visée thérapeutique qui
n’est pas de leur ressort. (…) Le passé parfoit chaotique de
certains enfants reste toujours présente et peut venir entraver les
perspectives de développement et d’adaptation. Pour chaque adoption, le poids de la vulnérabilité de
ces enfants est à apprécier” (Op. cit. pag.160). Occorre informare i genitori
sui fattori di rischio e di resilienza; sulle conseguenze della rottura del
legame di attaccamento; sulle fantasticherie dei bambini adottati (“Que sait-on
du parent imaginaire de l’enfant adoptable?”); sul possibile rifiuto dei nuovi
genitori; sulle paure legate alla nuova esperienza; sui segni che indicano la progressiva integrazione nella nuova
famiglia. Occorre investire sulla formazione degli operatori
sociali e dare risposte alle famiglie che chiedono:
·
l’istituzione
di un padrinato, ovvero di una figura di riferimento (un adottato adulto) con
funzione di sostegno per i più giovani;
·
la
creazione di una rete capillare di associazioni di mutuo aiuto per bambini
adottati;
·
l’accompagnamento
obbligatorio per i nuovi genitori adottivi;
·
la
creazione di un osservatorio della crescita dei bambini;
·
la
collaborazione con i servizi di psichiatria presenti sul territorio;
·
la
collaborazione con le associazioni di intermediazione, affinché siano più
vigili sulle falsificazioni che riguardano l’età dei bambini, la loro storia e
i traumi subiti;
·
l’istituzione
di una commissione di riflessione sull’adozione, in cui tutti i soggetti siano
rappresentati;
·
la
predisposizione, all’interno dei servizi che si occupano di adozione, di uno
spazio di ascolto per i genitori in difficoltà.
“La liste
des propositions n’est pas close et chacun se saisira à sa guise des pistes
suggérées, mais cette liste montre qu’une dynamique est possible, non pas pour
éradiquer les difficultés, mais au moins tirer les leçons des situations
douloureuses qui existent (Op. cit. pag.180).
[1] Su un campione di 317 bambini
esaminati, presi a carico dall’Assistenza sociale all’infanzia, solo il 7% non
presenta alcun disturbo; negli altri sono presenti uno o più disturbi: 47%
disturbi d’apprendimento, 35% comportamenti aggressivi, 34% fughe, 29%
eccessiva agitazione, 24% furti. Il disagio esistenziale può portare a processi
regressivi (25%), depressione (24%), confusione mentale (13%) e suicidi (12%).
Un terzo dei genitori affermano che questi problemi sono incominciati con
l’arrivo del bambino, il 20% dopo i primi cinque anni, quasi il 27% tra i due e
i cinque anni successivi all’adozione. Due terzi dei bambini accolti nella
struttura pubblica hanno più di 12 anni, solo il 6% ha meno di quattro anni.
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