giovedì 26 novembre 2009

Nancy Newton Verrier, Coming Home to Self. The Adopted Child Grows Up, Baltimore 2003

Stiamo leggendo il secondo libro della Newton nella traduzione in francese: Renouer avec soi. L'enfant adopté devenu adulte, De Boeck 2008. Lo consigliamo a tutti i genitori adottivi che hanno figli adolescenti o adulti e a tutti i figli adottivi che lottano ogni giorno per capire e controllare le loro emozioni e i loro comportamenti.

Nel suo primo libro La ferita primaria. Comprendere il bambino adottato ( tradotto da il Saggiatore, 2008) l'autrice -mamma adottiva e terapeuta della famiglia- aveva posto l'accento sul trauma causato nel bambino dalla separazione dalla madre naturale. Dal punto di vista del bambino è un'esperienza estrema, devastante. È il rifiuto più grave che egli possa subire e che produrrà delle conseguenze sulla sua intera vita. Questo trauma è stato spesso ignorato perché l'adozione, ancora oggi, viene considerata un atto caritatevole che fa degli adottati dei bimbi fortunati. Cosa mai potrebbero volere di più? Ne consegue che i comportamenti di numerosi bambini ( la voglia di distruggere tutto, l'aggressività verbale e fisica nei confronti dei famigliari o dei coetanei, l'incapacità di imparare dai propri errori, ecc...) vengono considerati anormali e i genitori, che tanto normali non devono essere neanche loro, vengono giudicati inadeguati perché poco amorevoli o poco pazienti.

La Newton è categorica: non sono anormali le reazioni dei bambini, "è la loro esperienza - la perdita della madre naturale, del loro patrimonio e del loro passato - ad essere anormale".

Due i principali obiettivi di questo secondo libro: il primo è aiutare gli adottati a trovare il loro Io autentico, un io che è stato deformato dalla mancanza di marcatori genetici e dall' impossibilità di rispecchiarsi nelle figure genitoriali, di nascita ed adottive; l'altro è di aiutarli a diventare consapevoli delle proprie forze e delle proprie responsabilità. Da vittime a protagonisti del proprio presente e futuro.

I primi due capitoli servono all'autrice per tracciare le linee guida del proprio lavoro e fissarne i presupposti teorici. Particolarmente avvincente la parte dedicata alla ricerca sul cervello. Oggi le neuroscienze sono in grado di provare e quantificare gli effetti delle esperienze negative sul cervello del neonato prima della nascita e durante i primi tre anni di vita. Il nostro cervello inizia a lavorare prima che la connessione delle sue cellule (all'incirca100 miliardi) sia ultimata. Alla nascita è l'elemento più indifferenziato del corpo. La formazione delle sinapsi, un'attività che fino alla nascita avviene in modo spontaneo ed è diretta geneticamente, dopo la nascita è determinata dalle esperienze sensoriali e ambientali. Sono dunque le prime esperienze a condizionare le connessioni dei neuroni e a dare inizio ai processi mentali. Nel caso dei neonati abbandonati il trauma della separazione dalla madre è la loro prima esperienza postnatale e sarà questa ad influenzare il modo in cui essi si relazioneranno con gli altri, le loro emozioni, gli stati d'animo e i comportamenti. Da qui la necessità di spiegare e rassicurare i bambini e i ragazzi adottivi, che manifestano comportamenti altamente ansiogeni, al punto da esaurire tutte le loro energie nel processo di adattamento alla sofferenza della separazione/abbandono, che il modo in cui reagiscono alle emozioni non dipende dal fatto che sono "nati male", ma dal fatto che sono stati vittima di un grosso trauma.

È possibile superare il trauma? La risposta è Sì. Occorre pazienza e tempo. Certo non è possibile riscrivere la propria storia, ma è possibile riprendere in mano la propria vita e decidere il proprio futuro. Per fare questo occorre riflettere sulle conseguenze che le nostre azioni hanno sugli altri, prendere coscienza che la nostra personalità -"è così che io sono"- non è il nostro vero Io, ma è il risultato del nostro adattamento al trauma, è il modo in cui noi gestiamo la perdita, nel terrore di rivivere una nuova esperienza di abbandono. "Ricordatevi cosa abbiamo detto sul modo in cui l'esperienza influenza le connessioni dei nostri neuroni. Le nostre percezioni di queste esperienze influenzano anche queste connessioni. E tutte queste prime connessioni sono molto difficili, ma non impossibili, da cambiare". Cambiare dunque si può ma richiede tempo e strategie mirate per aiutare il cervello a creare dei nuovi schemi, a realizzare un nuovo cablaggio.

La seconda parte del libro è interamente dedicata alle tecniche per aiutare i ragazzi adottivi a fare i conti con "la propria ombra", a distinguere tra falso e vero , ad accettare il rischio della gioia e a riappropriarsi della vita.



Per noi genitori adottivi è una lettura intensa che suscita emozioni forti, temperate da una grande sensazione di sollievo e di speranza. La testimonianza di questa mamma ne è un esempio.

"Provo un grande sollievo all'idea di questo libro: finalmente comprensione e conoscenza del problema. Troppi esperti non ci hanno capito. Per esperti intendo coloro che avrebbero dovuto capire e aiutare nostro figlio in difficoltà e quindi la nostra famiglia in difficoltà.
Sono restati alle loro conoscenze e esperienze, senza andare oltre per capire.
È lo stesso sollievo che ho provato nel gruppo quando ho detto che nostro figlio prima di iniziare le distruzioni cambiava sguardo. E io capivo che avrebbe incominciato a distruggere. Varie mamme hanno detto: -Succede anche a me-. Ecco: il sollievo di sapere che anche altri sanno di cosa si sta parlando, perché lo hanno vissuto anche loro. E tutti sappiamo che sono elementi importanti, che potrebbero aiutare i nostri ragazzi se gli esperti ci ascoltassero fino in fondo.
Ma gli esperti non hanno l'esperienza diretta e non si fermano a riunire le esperienze dei genitori.
Newton è insieme mamma adottiva e psicologa: ha un'esperienza diretta e conoscenza professionale e naturalmente la spinta a capire.
Lo stesso sollievo sicuramente potranno sentirlo i nostri figli quando avranno comprensione e spiegazioni vere su quello che gli succede. E come dice Newton hanno diritto di saperlo, loro in prima persona e noi genitori per aiutarli, comunque capirli.
Fin dall'inizio non siamo riusciti a capire molti comportamenti di nostro figlio. Con l'età i comportamenti sono stati ancora più incomprensibili e devastanti. Mi ricordo lo sconcerto, l'ansia, la paura, l'incomprensione totale davanti a un figlio di 11 anni che distrugge tutto quello che gli capita sotto tiro con rabbia e disperazione senza freno. Mi ricordo solo il tappeto di cocci e il mio sconcerto disperato. Per fortuna mio figlio si ricorda come ho agito verso di lui: quando ha smesso la distruzione (prima era impossibile avvicinarlo), l'ho stretto forte e l'ho cullato.
Questo sconcerto rispetto alle sue azioni è un sentimento costante. Quante ore di discussioni abbiamo passato io e mio marito per cercare di decriptare questi comportamenti, di capire i perché, di trovare strategie. Piano, piano siamo arrivati a capire alcune cose, che dopo ti sembrano ovvie: il problema dei compleanni (quale giorno più brutto per chi è stato abbandonato?), le crisi alla partenza di mia sorella per tornare dalla sua famiglia (un piccolo abbandono), le sfuriate al ritorno da scuola (l'incapacità di sentire la fame e dirlo), l'ansia per l'arrivo dei giudizi, la paura di non farsi accettare da un nuovo maestro o un supplente, il terrore di iniziare le scuole medie, ecc...
Ogni volta dovevamo cercare le origini di certi comportamenti per poterli capire e possibilmente prevenire.
Tante volte abbiamo parlato con lui dei problemi, ma andando a tentoni, esaminando il singolo fatto del momento, poco in chiaro sia lui che noi sulle cause profonde. E quindi, in definitiva, siamo stati poco rassicuranti.
Per un miscuglio di motivi abbiamo aspettato un po' a chiedere aiuto: E ancora un po' a parlare con altri genitori.
Per quanto riguarda l'aiuto, non è stato adeguato. Ce ne rendiamo conto sempre di più ad ogni pagina della Newton.

Quanto a parlarne con altri genitori, all'inizio è stato un sollievo scoprire che anche altri avevano gli stessi problemi. Ma non bastava. La specificità dei problemi legati all'abbandono, i motivi di questi problemi, non venivano ancora fuori. Gli "esperti" ci guardavano con commiserazione (quando andava bene) o con insofferenza.
Poi sono arrivati il primo libro della Newton, il gruppo dei genitori, l'Artoni, la consapevolezza.

E adesso il secondo libro della Newton. Più vado avanti nella lettura e più tutto va al suo posto. Risponde agli angosciati perché che ci ponevamo: quello che abbiamo passato ( e passiamo) ha i suoi motivi e forse i suoi rimedi.
Se penso alla sofferenza che abbiamo provato come genitori sconcertati e spesso impotenti, ora mi accorgo che non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare quello che può provare nostro figlio rispetto ai suoi comportamenti, ai suoi scoppi, ai suoi eccessi.

Quanta paura, quanta confusione, quanto dolore, quanta solitudine si accumulano sul trauma dell'abbandono.
Ê proprio ora che i nostri figli sappiano con chiarezza che non sono soli a stare male come stanno, che sappiamo quello che succede con l'abbandono, quali sono i detonatori che li fanno saltare, che non è colpa loro, che non sono così e basta, che possono cambiare, che possono avere delle speranze.

Organizzare un gruppo tra adottati può essere una strada. Che sollievo vedere altri come te, scoprire negli altri i tuoi problemi, parlare con qualcuno che sa quello che stai dicendo (proprio come lo è stato per noi genitori).
Dopo forse puoi anche permetterti di pensare di non essere cattivo, che qualcuno può aiutarti, che puoi essere diverso: Che puoi staccarti dalla rabbia di quel bebè disperato che eri".









mercoledì 16 settembre 2009

Le psicoterapie parallele genitori-bambini nell'esperienza emotiva dell'adozione

Riceviamo e pubblichiamo un'interessante iniziativa promossa da un gruppo di psicologi e psicoterapeuti ticinesi.

Sabato 17 ottobre 2009 inizierà il seminario sul tema:"Le psicoterapie parallele genitori-bambini nell'esperienza emotiva dell'adozione".

Gli incontri avranno cadenza mensile, il sabato mattina dalle 10.30 alle 12.30.

L'iniziativa è promossa da un gruppo di professionisti privati attivi nel campo dello studio e della cura del disagio infantile ed è rivolto a psicologi e psicoterapeuti che intendono approfondire questo specifico tema.

Il seminario è condotto dalla dottoressa medico Fiamma Buranelli e dalla psicoterapeuta Patrizia Gatti, Milano.

Chi fosse interessato è invitato a contattare:

Valeria Lazzarini, Psicoterapeuta ASP
via C.A. Bernasconi 13, 6900 Massagno. Tel. 079/5905708

Greta Coste, Psicologa FSP
via C.A. Bernascono 13, 6900 Massagno. Tel. 076/3242719

venerdì 4 settembre 2009

Gruppo scuola: una nostra proposta per i docenti

In considerazione dell'importanza, ai fini didattici, di un buon inserimento dei bambini nel gruppo classe a partire dalla scuola primaria, abbiamo deciso di sponsorizzare due corsi di formazione e aggiornamento per docenti sul tema: Bambini di famiglie non tradizionali e bambini adottati. Animatrici le dottoresse Patrizia Gatti e Fiamma Buranelli (per sapere chi sono vai ad Archivio blog 22 novembre 2008 e 6 aprile 2009).
I corsi si terranno, a partire da gennaio, nella giornata di venerdì dalle 17 alle 19, presso la sala multiuso della Scuola Elementare di Breganzona (le iscrizioni sono aperte fino all'8 gennaio 2010).
I nostri ringraziamenti vanno al direttore Valsangiacomo che ha accettato con convinzione la nostra proposta e alla direzione delle Scuole Comunali di Lugano per averla inserita tra i corsi di formazione e aggiornamento per docenti 2009-2010.
Per ogni altra informazione è possibile contattarci, chiedendo delle nostre referenti del gruppo scuola: le signore Patrizia Milani e Isabella Formentini.

domenica 16 agosto 2009

UN LIBRO DA LEGGERE IN VACANZA

Molti di noi sanno, perché ne portano le cicatrici nel cuore, che essere genitori adottivi vuol dire anche curare i propri figli: accudirli non è sufficiente. Alcune difficoltà si superano attraverso il passa-parola tra genitori, altre necessitano di un aiuto specifico esterno.

Per anni un gruppo di genitori adottivi si ritrova per condividere le proprie scelte educative ed aiutare i figli a "diventare grandi, sufficientemente responsabili, autonomi e adulti (...) capaci a loro volta di trasmettere qualcosa a qualcun altro". Agli incontri partecipa un neuropsichiatra, psicoterapeuta di professione, Marco Mastella, dotato di una grande umiltà: sa ascoltare, memorizzare, rielaborare, interpretare e, immaginiamo, dare gli imput giusti al gruppo per crescere.

Marco Mastella, Sognare e crescere il figlio di un'altra donna, (2009), Cantagalli (ed.) é un bel libro che ha il pregio di coinvolgere il lettore al punto di farlo sedere all'interno del gruppo, vero protagonista e coautore del libro. Parlando, ascoltando, sbagliando e riprovando i genitori -e con loro il lettore- si accorgono di cambiare pelle e imparano a relazionarsi diversamente con i figli, a mantenere aperto il dialogo e a "sopravvivere" nei momenti di sconforto.

Molto interessanti le parti dedicate all'adolescenza, al passaggio "dalla dinamica del controllo a quella del rischio educativo", alla difficoltà di prendere le distanze dai nostri figli e "diventare spettatori partecipi, tifosi della (loro) riuscita sapendo "che comunque non (li abbandoneremo), del tutto soli, al loro destino". È un cammino lungo ed esaltante che talvolta lascia come prosciugati e privi di energia: "Non posso mollare mai (dice un padre del gruppo) fino all'ultimo dovremo ritentare" per fornire, come precisa Mastella, a ognuno dei nostri figli "la prova del limite della sua distruttività". Se noi genitori reggiamo lo aiutiamo a non perdere "la speranza di poter sopportare lui stesso, dentro di sé, la propria distruttività, fino ad arrivare a trasformarla almeno un po' ".

Un libro ricco di spunti che ci aiuta a capire le dinamiche famigliari, gli ostacoli nelle relazioni interpersonali, le fughe dei figli alla ricerca di maggiore libertà, l'adesione a modelli di comportamento antisociali, l'approccio con il mondo del lavoro e l'esperienza, per molte ragazze, di una gravidanza precoce che dia loro conferma della propria fertilità.

Nella maggioranza dei casi i genitori e i figli riescono a crescere insieme e le rotture dolorose si ricompongono adagio, adagio. Qualche volta il cammino è più impervio e occorre accettare i propri limiti e non dimenticare che "è più difficile essere genitori adottivi che figli adottivi"(1). È importante, quando il coinvolgimento emotivo e fisico è tale da non dare tregua, riconoscere che è giunto il momento di farci aiutare: " il livello di sofferenza e di difficoltà a elaborare ciò che sta accadendo può diventare, in taluni momenti, intollerabile anche per i genitori più devoti e dotati. Per loro e per il figlio può allora diventare molto prezioso un aiuto specialistico esterno".

Ottima la scelta del titolo: il legame che dobbiamo creare con i nostri figli non può prescindere dalla figura della loro mamma biologica. È con lei che i nostri figli devono riuscire prima o poi a riconciliarsi per riappropriarsi della loro storia.

(1) M. Soulé (2002), Contributo clinico alla comprensione dell'immaginario dei genitori. A proposito dell'adozione ovvero il romanzo di Polibo e Merope. In Zurlo M.C. (2002), La filiazione problematica. Liguori, Napoli

potete ordinare il libro qui:

sito: www.edizionicantagalli.com

tel 0577 42102
fax 0577 45363
e-mail cantagalli@edizionicantagalli.com

sabato 20 giugno 2009

GENITORE - TUTOR

Segnaliamo un'interessante iniziativa promossa dall'associazione AFAIV (Associazione Famiglie Adottive Insieme per la Vita) di Arcisate ( e-mail info@afaiv.it www.afaiv.it), punto di riferimento di numerose coppie e famiglie adottive della Provincia di Varese: offrire ai soci l'opportunità di diventare "conduttori/formatori volontari" (tutor) dell'associazione.

Tale iniziativa conferma l'importanza del lavoro di sensibilizzazione, accompagnamento e sostegno alle coppie e alle famiglie nel periodo pre e post adottivo e l'utilità del metodo del passa-parola tra genitori finalizzato al mutuo-aiuto. La presenza del genitore-tutor, che funge da mediatore tra la figura professionale dell'esperto ( avvocato, psicologo o psicoterapeuta) e la coppia genitoriale, ha il vantaggio di facilitare lo scambio delle esperienze all'interno di un gruppo di pari, dove ogni storia ha, al tempo stesso, aspetti originali e tratti comuni.

Il corso è articolato in otto incontri -da giugno a novembre- e si avvale della collaborazione dei responsabili scientifici del C.T.A (Centro di Terapia dell'Adolescenza) di Milano (centrocta@tiscalinet.it www.psicoterapiacta.com).
Questi i temi affrontati:
- L'adozione: aspetti legislativi e scenari di riferimento.
- Il bambino adottato: caratteristiche, bisogni, potenzialità, difficoltà e risorse.
- Il fenomeno dell'abbandono e dell'inadeguatezza genitoriale: possibili cause psicologiche e sociali. Come parlare al bambino della sua storia di figlio adottivo.
- L'inserimento del bambino nella famiglia: dinamiche relazionali, problematiche frequenti, procedure e strumenti di osservazione.
- La candidatura dell coppia disponibile all'adozione: obiettivi e metodologie della valutazione.
- La formazione delle famiglie adottive.
- Il sostegno alle famiglie adottive.
- Le emozioni dell'operatore nelle varie fasi dell'accompagnamento della famiglia adottiva.

L'importanza dei temi trattati ci aiuta a capire la complessità del fenomeno dell'adozione, il numero dei soggetti coinvolti, la necessità di competenze appropriate per migliorare e consolidare la rete di sostegno alle coppie/famiglie nel percorso adottivo e, non ultima, la necessità di collaborazione tra le diverse istituzioni pubbliche e private.
Questo corso è stato realizzato grazie al progetto "Insieme si può, il sostegno tra le famiglie" presentato dall'Afaiv ai sensi della LR28/96 -Legge della Regione Lombardia che sostiene i progetti di formazione delle associazioni di volontariato e di promozione sociale-. Segnaliamo infine che l'Afaiv partecipa da più di tre anni al Poc (protocollo operativo coordinato regionale sull'affido e adozione) che ha avviato, tra l'altro, un'importante azione di confronto e condivisione con il Tribunale dei Minorenni di Milano sulle modalità di realizzazione dell'attività formativa e di valutazione delle coppie che hanno dato la loro disponibilità all'adozione.

Abbiamo riferito in modo dettagliato questa iniziativa realizzata oltreconfine non solo per l'importanza che essa riveste in , ma anche nella speranza di vedere qualcosa di analogo anche in Ticino.

giovedì 21 maggio 2009

IL VIAGGIO ALLA RICERCA DELLE PROPRIE ORIGINI

Il Ciai a Milano -vai a venerdì 13 febbraio- e l'associazione Chaba a Camignolo, lo scorso 27 aprile, hanno organizzato un incontro pubblico dedicato alle testimonianze di alcune figlie adottive che hanno deciso di compiere, da adulte, un viaggio nel loro paese d'origine. Un'occasione, per alcune di loro, per ricostruire un legame con la propria famiglia di nascita.
Abbiamo partecipato ad entrambe le iniziative perché tutte le testimonianze, non solo quelle rese dalle protagoniste ma anche dal pubblico in sala, ci sono di grande aiuto per riflettere e per capire un po' di più il complesso fenomeno dell'adozione.

Le relatrici, oggi inserite nel mondo del lavoro e in due casi su tre mamme a loro volta, sono nate in due paesi lontani: l'India e l'Africa. Le ticinesi sono arrivate più di trent'anni da in Svizzera direttamente dal loro paese d'origine. Le prime adozioni, infatti,non prevedevano il soggiorno dei futuri genitori nel paese di provenienza dei bambini; questi arrivavano in gruppo ed erano trattenuti all'ospedale di Ginevra per un periodo di quarantena, a volte senza ricevere informazioni sulla loro sistemazione futura. Una situazione di grande disorientamento per i bambini e, pensiamo, anche di difficoltà per i futuri genitori che raramente avevano esperienza diretta del paese d'origine dei loro figli. Per la prima volta due mondi lontani si incontravano, senza conoscersi. L'amore dei nuovi genitori veniva in soccorso alla solitudine dei bambini che nell'asetticità dell'ambiente ospedaliero erano privati anche degli odori e dei sapori conosciuti, ultimi legami con il loro vissuto.

La ricerca delle proprie origini, anche se nella maggioranza dei casi non si traduce in un vero e proprio viaggio con la valigia, è comune a tutti i figli adottivi. Ci spieghiamo meglio. Usiamo il termine ricerca non necessariamente pensando al ragazzo che si attiva per conoscere, laddove è possibile, il nome e il cognome dei genitori biologici. Parliamo in generale di ricerca, intendendo il lavoro di riflessione che ogni ragazzo adottivo compie, dentro di , alla ricerca della propria identità. È un viaggio interiore, che può durare molti anni, e che costringe a fare i conti con la deprivazione subita.

Pensiamo sia compito di ogni genitore adottivo dare ai propri figli tutto il supporto necessario per riempire questa sorta di buco nero, che è causa di tanto dolore al punto da essere paragonato, da una delle due relatrici di Camignolo, a "un fuoco che può esplodere all'improvviso e divorarti".

Come fare? Innanzi tutto diamo ai nostri figli, da subito, tutte le informazioni in nostro possesso sul loro primo mesi o anni di vita, sotto forma di favola o di racconto secondo l'età. Sta alla sensibilità individuale di ognuno dosare le informazioni, tenendo conto delle curiosità e delle richieste del bambino. Qualcuno potrebbe obiettare che è inutile parlare di adozione, quando i bambini sono piccoli, perché non potrebbero capire. Non siamo d'accordo: anche se non diciamo a un bimbo che è stato abbandonato, lui lo sa, sente il dolore dentro di . ha bisogno di capire che la persona che adesso si prende cura di lui lo comprende e sa quanto lui soffre: solo cosi, comprendendo le ragioni del proprio dolore, riesce a crescere. Troviamo molto azzeccato quanto osservato dai consulenti scientifici del Ciai: così come il bambino piccolo si sente amato quando la mamma o il papà lo vezzeggia, pur non conoscendo il significato delle parole usate dal genitore e questo amore si traduce in auto stima per il piccolo, allo stesso modo si sentirà rincuorato quando i genitori gli parleranno della sua adozione; il legame empatico col piccolo servirà a calmare la sua ansia e gli fornirà i primi strumenti per imparare a controllarla: Crescendo imparerà che anche il dolore può essere accettato e superato.

Voglio conoscerei miei genitori

È soprattutto negli anni più difficili dell'adolescenza, quando le nostre pretese aumentano (li vorremmo studenti brillanti e responsabili, non è così?), i nostri figli incominciano a voler fare di testa propria, stufi che siano sempre gli altri a decidere per loro. Molti, infatti, vivono l'abbandono e l'adozione come delle scelte subite e ora non sono più disposti a tollerare che siano sempre gli altri a programmare la loro vita.

"Chi sono io?". "A chi appartengo?". "Perché mi sento un ospite in famiglia?". "A chi assomiglio?". "Perché i miei coetanei mi sono estranei?". "Ho più problemi degli altri perché sono diverso?". "Noi adottivi siamo figli di serie B?". Sono domande concrete, anche se non sempre vengono espresse.
In alcuni ragazzi la sensazione di estraneità nei confronti della famiglia e dei coetanei, l'immaturità, la scarsa auto stima e il pensiero di essere diversi si trasformano nella determinazione di voler ritornare nel proprio paese d'origine alla ricerca della propria famiglia naturale. Alcuni di loro agiscono sotto una spinta ideale, gravata dal senso di colpa per aver lasciato i genitori che li hanno messi al mondo: "Che vita fanno?", "Ho dei fratelli?", "Sentono la mia mancanza?". Ingenuamente pensano di poter modificare le cose e creare una specie di grande famiglia allargata in cui tutti, i quattro genitori (biologici e adottivi) e gli eventuali fratelli possono trovare una loro collocazione: un po' come mettere insieme i tasselli di due puzzle, soluzione impossibile! Inoltre riattivare un legame è molto pericoloso per tutti i soggetti coinvolti: innanzitutto per i figli, quando non hanno ancora avuto il tempo di fare pace con il proprio passato, e poi anche per i genitori che li hanno dati in adozione e che potrebbero aver rimosso una scelta così dolorosa.

Gli esperti del Ciai hanno sottolineato la necessità di approfondire con i ragazzi le ragioni che li spingono a ricercare i genitori biologici, partendo da quattro domande basilari:

- perché lo vuoi fare?
- cosa cerchi?
- come lo cerchi?
- che momento è della tua vita?

Solo partendo da un "viaggio interiore, che costituisce il vero viaggio", è possibile dare delle risposte e aiutare i ragazzi a trovare la loro identità.
Noi pensiamo che sia importante un percorso condiviso, così che anche i genitori non ne siano esclusi e non si trovino da soli a gestire "la paura di perdere il proprio figlio". L'aiuto di un professionista può essere in molti casi risolutivo ed è proprio per questa ragione che molte associazioni di famiglie adottive hanno deciso di farsi aiutare per meglio aiutare i propri figli. In questo modo il viaggio alla ricerca delle proprie origini, compiuto in età adulta, con una dovuta preparazione e il sostegno della famiglia adottiva, offrirà ai nostri figli l'occasione per considerare un valore la loro doppia appartenenza etnica, culturale e famigliare.

martedì 7 aprile 2009

Adozione e apprendimento scolastico



La rivista "Richard e Piggle" n.1-2009 ha recentemente pubblicato il testo della conferenza delle dottoresse C. Artoni Schlesinger e P. Gatti tenutasi a Lugano il 12 aprile 2008, in occasione della giornata di studio organizzata dall'associazione CHABA e da noi sul tema Adozione e apprendimento. Un problema scottante che riguarda molti figli adottivi
( vai a "Presentazione" ).
Eccovi il testo.


CLAUDIA ARTONI SCHLESINGER e PATRIZIA GATTI
Adozione e apprendimento scolastico


I genitori pongono spesso agli 'esperti' un quesito su un problema molto diffuso tra i bambini adottivi, ma non facile da affrontare e tanto meno da risolvere: quello delle difficoltà scolastiche che questi figli particolari trovano sul loro cammino.
Vorrebbero sapere come comportarsi e, se esistono, avere ricette già pronte da applicare più o meno automaticamente e magicamente.
É per loro una grande delusione trovarsi di fronte a cosiddetti esperti che rispondono di non avere soluzioni rapide e precostituite. La risposta non può che essere, almeno per la nostra esperienza, che ci sono i singoli casi che vanno affrontati nella loro particolarità, sperando di trovare una strada per avviare un diverso e più fruttuoso processo di crescita interna che permetta anche un migliore apprendimento.
D'altra parte per noi che ce ne occupiamo è esperienza comune quella di constatare che spesso quello che vale per un bambino o un adolescente non vale per un altro e che ogni situazione richiede attenzione, studio e fantasia, pensiamo proprio fantasia, particolari. E' la fantasia che suggerisce pensieri nuovi. Nel dire questo pensiamo a Bion che raccomanda di non avere paura dei pensieri selvatici.(1)
Non si può quindi fare un discorso generale, ma affrontare il problema attraverso la riflessione su casi singoli facendoci aiutare anche dalla grande letteratura non psicoanalitica.
David Grossman, in un suo libro su un bambino particolare, fa dire a un suo personaggio (una signora facente per il bambino funzioni di madre), che sta parlando con l'insegnante del suo pupillo:
"Forse non tutti [i bambini] sono adatti all'inquadramento della scuola! Ci sono persone rotonde, mia cara signora, ci sono bambini a forma, diciamo, di triangolo, perché no, e ci sono... ci sono bambini a zigzag!".(2)
I bambini adottivi sono veramente bambini a zigzag. I grandi scrittori spesso hanno intuizioni e modo dì rappresentarle molto più efficaci di quelle di qualsiasi studioso. Noi nel nostro lavoro siamo dei pazienti ricercatori che si sforzano di capire come sono fatti i bambini con le loro diversità e difficoltà.
Al ricercatore spetta il compito di capire e cercare appunto di spiegare il significato di espressioni e immagini così pregnanti come quella di Grossman citata sopra. Abbiamo 'adottato' questo modo di rappresentare un bambino per parlare dei bambini adottivi e della scuola.
Perché a zigzag? Perché per essere adottati hanno dovuto percorrere nella realtà e nel mondo interno, fuori e dentro se stessi quindi, un percorso non lineare dalla nascita alle varie fasi di sviluppo che per loro sono esperienze che quasi sempre non determinano memorie riconducibili alla memoria esplicita o autobiografica, ma si depositano nell'inconscio non rimosso (3) riemergendo eventualmente in immagini frammentate difficilissime da riunire in un discorso che abbia il significato di una storia della propria vita. Parliamo infatti di un certo tipo di bambini di fronte ai quali si rimane spesso sconcertati e confusi nella difficoltà di comprendere le loro comunicazioni. Bambini che fin dall'inizio della vita scolastica presentano inibizioni nell'uso delle capacità intellettuali, quasi sempre peraltro presenti, con conseguenti difficoltà nell'apprendimento.
Per tentare di spiegare questo problema così largamente diffuso tra i bambini di cui ci occupiamo, si sono avanzate varie ipotesi: da quella più semplice e sbrigativa che si può riassumere nella frase di un padre che, parlando del figlio e dei suoi eterni problemi scolastici, affermava: "Credo che proprio non ce la faccia" e così liquidava il problema attribuendolo a una supposta scarsità di dotazione mentale, senza tentare una maggiore e diversa comprensione del problema; a quelle orientate invece a trovare sempre problemi psicologici legati all'adozione per spiegare qualsiasi cosa.
Purtroppo questo succede non poche volte anche a scuola, col risultato di ghettizzare i bambini in difficoltà.
La tentazione di attribuire ogni difficoltà a un'origine emotiva dovuta alla storia particolare dei bimbi, lascia poco spazio al pensiero che porta alla comprensione del nuovo, soprattutto se il nuovo è un bambino diverso, a zig-zag appunto.
Nessuno dei sostenitori delle su citate posizioni tiene presente il fatto, oggi ben riconosciuto e accettato dalle neuroscienze, che il cervello dell'uomo è fatto di reti neuronali estremamente plastiche, in continuo cambiamento.
La combinazione di una diversità genetica, di una diversità di esperienze di vita, e di una non trascurabile componente di mere casualità in cui tutti inevitabilmente incorriamo, fa del cervello di ciascuno di noi un organo irripetibile.
E quindi anche per questi bambini particolari non è possibile parlare di una situazione psicologica statica che li caratterizzerebbe dalle origini e sarebbe la causa immodificabile delle difficoltà di apprendimento e inserimento. Anche nel loro caso non si può che pensare che la persona è il risultato del complesso processo che abbiamo descritto prima. Non è quindi solo importante l'ambiente originario, ma anche quello nel quale il bambino ha vissuto e vive ora.
La realtà è poi molto variegata per cui il singolo è sempre un unicum. Infatti se è vero che molti bambini adottati hanno gravi problemi di apprendimento è anche vero che altri ne hanno di ben minori, anche se le storie sembrano simili e spiegare i differenti risultati non è facile.
Per affrontare meglio il problema abbiamo pensato di illustrare e commentare qualche caso clinico di cui ci siamo occupate in tempi diversi.
Sono appunto storie di bambini a zigzag che obbligano a pensare secondo criteri non consueti per cercare di capire meglio le difficoltà che presentano.
II nostro intento in questo lavoro è di provare a mostrare che, per continuare a utilizzare la metafora di Grossman, non si può far diventare diritto quello che non lo è, ma si può cercare di capire la comunicazione sottesa del paziente per trovare soluzioni alternative, anche non consuete, che possano eventualmente attenuare le loro difficoltà o quanto meno impostare strade nuove per arrivare a migliorare la situazione.
Sappiamo, e non deve essere dimenticato, che tutti i bambini apprendono, ma non tutti hanno gli stessi tempi e le stesse dotazioni intellettuali.
Non è possibile pensare che un bambino nato in ambienti culturali differenti, dove spesso è vissuto per lunghi periodi sentendo parlare lingue diverse, abbia la stessa rapidità di comprensione di un altro abituato da sempre alla lingua del paese in cui vive. Il bimbo adottato, portato, senza averlo chiesto, in un paese diverso, spesso lontanissimo dal proprio, si ritrova a dover affrontare le difficoltà di un contesto linguistico totalmente differente.
Magari, col tempo, una volta cresciuto, questa nuova persona mostrerà anche capacità superiori rispetto ad altri, ma devono essergli concessi, come sottolineavamo, i suoi tempi e le sue strategie di apprendimento.
Pensiamo quindi che le prime difficoltà di cui raramente ci si occupa siano costituite dal cambiamento di ambiente a cui il bambino è sottoposto. Cambiare ambiente significa essere immessi in un mondo completamente nuovo, dove diversi sono gli odori, i rumori,
i colori, la musica e, nel caso dei bambini che arrivano da altri paesi, come già sottolineavamo, anche l'ambiente linguistico.
Tutto ciò è un'importante parte costitutiva del trauma che accompagna i bambini che vengono avviati all'adozione.

Problemi legati alla lingua
Per i bambini adottati ogni difficoltà di comprensione anche solo di una parola difficile è solo la conferma della loro diversità vissuta come inferiorità. E tutto ciò è fonte di frustrazione.
Sappiamo che giungere a tollerare la frustrazione (e nel caso dell'apprendimento la prima frustrazione sta nel non capire, non riuscire ad accettare di non sapere) è essenziale per lo sviluppo del pensiero. Il bambino che tenta di sfuggirla in ogni modo, finisce per evitare anche di pensare, provocando l'inibizione del pieno utilizzo delle sue capacità mentali. Intendiamo dire che evitando di pensare evita, per ricordare Bion e il suo insegnamento, di utilizzare l'esperienza per apprendere. Poter pensare all'insuccesso potrebbe indurlo a cercare soluzioni diverse al problema non risolto, per evitare altre frustrazioni dolorose.
Gli effetti della fuga dalla frustrazione possono essere devastanti: si può andare da un iniziale apparente congelamento di ogni facoltà di pensiero a un'incapacità generalizzata ad apprendere. Imparare comporta il riconoscimento di non sapere, la dipendenza da qualcuno che già sa ed un graduale ricevere ed assimilare, così come il crescere della personalità può solo avvenire attraverso faticosi passaggi graduali. (Vaciago Smith, 1986).

Giacomo e i muri di parole
Giacomo viene da un paese dell'Est, ora ha 9 anni, ne aveva 2 quando fu adottato.
Ai test cognitivi risulta nella norma, anche se ha delle cadute di attenzione e concentrazione in gran parte legate al non tollerare di non sapere, di non essere all'altezza, che lo porta a rinunciare al tentativo di risolvere il problema che gli viene posto. In questo modo evita il confronto con gli altri. Ha il sostegno a scuola, ma le difficoltà di apprendimento si manifestano soprattutto a livello di logica e matematica.
Colpisce il suo modo di scrivere, molto simile a quello dei dislessici pur non essendolo. Giacomo scrive esclusivamente in stampatello senza lasciare spazi tra le parole.
Il risultato è un muro di lettere dove viene completamente persa la possibilità di distinguere le parole l'una dall'altra, non solo, ma anche il ritmo della frase e quindi il significato di ciò che è scritto. Ogni connessione è eliminata insieme alla possibilità di cogliere eventuali emozioni che lo scritto trasmetta. Non c'è possibilità di distinguere ciò che è legato da ciò che è separato.
Questi modi di scrivere ci hanno suggerito l'ipotesi che i bambini che lo adottano abbiano vissuto il primo periodo della vita in un ambiente sfavorevole al costituirsi del senso del legame e, quindi, della separatezza.
Abbiamo trovato interessante, per ciò che riguarda la costituzione dei senso non solo del suono, ma anche del ritmo e quindi degli intervalli, il seguente passaggio di Di Benedetto ("Prima della parola", 2000, pp. 56 ss.): "Ciascuno di noi, nel comunicare con la parola e con il corpo sviluppa un suo specifico linguaggio sonoro, suonando se stesso e risuonando al contatto con il proprio ambiente. Ogni essere umano suona il suo strumento vocale, per trasmettere qualcosa che va oltre il testo verbale. Segnala la parte nonancora-simbolizzata dell'esperienza psichica attraverso la vocalità, prima che giunga a essere detta. Sviluppa un suo codice sonoro per segnalare qualcosa di più del puro e semplice messaggio linguistico. Lancia segnali musicali, soprattutto ritmici, in attesa che altri li raccolga e stabilisca con lui un'intesa pre-linguistica paragonabile all'accordo che si realizza in una danza".
E' così che possiamo supporre si formi il primo sostrato del linguaggio che unisce il neonato alla madre. Tutto ciò viene perduto dal neonato bambino spostato dal suo ambiente originario.
Perchè è poi di qui che nasce il senso della ritmicità che segna l'assenza e la presenza dell'oggetto che interviene oppure no con la risposta adeguata.
II modo di scrivere a muro rimanda all'idea di una separatezza impossibile, perché è impossibile distinguere tra sé e l'altro. L'altro non è pensabile come entità separata e quindi non è conoscibile. Tutto è confuso in un magma indistinto dove non esistono differenze.
Sappiamo che molti di questi bambini vengono lasciati per mesi e anni nei loro lettini, se ne hanno uno, con un biberon accanto e senza una presenza adulta che segni il momento della poppata separato da quella del riposo.
Lo scrivere a muro l'abbiamo incontrato più volte nell' esperienza clinica con bambini adottati. La nostra ipotesi, come abbiamo sottolieato prima, è che metta in evidenza un problema nell'area della separazione portando alla luce il suo legame col trauma originario dell'abbandono.
Ci chiediamo come sia possibile pretendere che i meccanismi preposti all'apprendimento funzionino regolarmente in mancanza della costituzione di legami affettivi fondamentali che sappiamo essere alla base di ogni sviluppo regolare.
Eppure alcuni di questi bambini apprendono, come avessero dentro di sé una forza, una struttura particolare (una dotazione innata?) che permette loro di utilizzare al meglio le situazioni favorevoli che la vita originaria prima e l'adozione poi, offre loro. Possiamo dire che, essendo ogni essere umano un unicum che si realizza come persona attraverso le varie esperienze di vita, anche negative, che attraversa, abbia anche capacità personali che lo rendono più o meno capace di utilizzare anche il minimo positivo che lo sfiora nelle sue varie vicende. Ci mancano le osservazioni che vorremmo più approfondite sulla vita di questi bambini nel loro travagliato primo periodo di esistenza. Possiamo solo constatare che in alcuni casi il risultato dello sviluppo non è catastrofico come sarebbe logico attendersi. Al contrario situazioni apparentemente più favorevoli non sono tali da far sì che i bambini siano più forti e dotati davanti alle difficoltà della crescita.
Nei bambini del muro di scrittura sembra che non ci sia la possibilità di una rappresentazione mentale di ciò che significa separarsi. L'abbandono originario determina solo il senso di un continuum senza pause e senza possibilità di comprensione. È' il caso ad esempio di Irina (10 anni), ucraina, nata prematura e più volte ospedalizzata nei suoi primi mesi di vita, che viene adottata a un anno.
Bambina intelligente, con buone prestazioni scolastiche, salvo nell'aritmetica e, in particolare (e forse non è un caso) nelle divisioni.(4)
Irina è una bella bambina dai lineamenti dolci e perfetti, che contrastano con la sua espressione sempre molto dura e distante.
Si definisce "la specialista del freddo" perché proviene da fredde e lontane terre del nord. Tale espressione sembra ben rappresentare anche il freddo della sua nascita prematura, dell'incubatrice, delle cure intrusive e metalliche.
Il freddo rende comprensibile anche l'idea del suo apparire irraggiungibile, chiusa nel suo mondo di ghiaccio.
Ci è capitato spesso, pensando a lei, di ritornare con la mente alla favola di H. C. Andersen "La regina della neve" dove un bambino viene trafitto al cuore e all'occhio da
due schegge di uno specchio fatato. Si sente gelare e non prova più niente, dimentica la sua vita passata e da quel momento cambia diventando scontroso ed arrabbiato. Racconta Andersen:
"Kay abitava nel castello [della Regina della neve], un castello fatto di turbini di vento gelati. Là dentro non penetravano mai l'allegria e il calore di un sorriso. Tutto era gelido, immobile, vuoto e freddo. Anche lui era gelato, freddo il suo cuore e cereo il suo viso, ma non lo sapeva: aveva dimenticato ogni cosa e la Regina gli aveva rubato ogni ricordo."
Un giorno Irina chiede alla sua terapeuta se può scrivere una lettera per la mamma e il papà adottivi, alla fine la mostra alla sua dottoressa che prova un moto di sorpresa e stupore: ecco di nuovo il muro di lettere senza intervalli!
I muri dei bambini adottivi, che abbiamo chiamato anche il muro dell'ottusità emotiva proprio per la evidente mancanza da parte di questi bimbi di comprensione e di espressione delle emozioni, che pure si colgono come chiare presenze nel campo analitico.
Illustreremo di seguito un caso che coinvolge non solo il bambino adottivo in terapia, ma anche i genitori e i terapeuti, proprio a dimostrazione del fatto che possono essere presenti nel campo analitico appunto forti componenti emotive non riconosciute, ma capaci di creare turbolenze nei rapporti familiari.

Genitori e figlio: tre muri diversi di non comprensione e non comunicazione
Nella situazione clinica che illustreremo qui di seguito si parlerà ancora di muri di non comprensione che hanno la particolarità di appartenere ai diversi membri della famiglia con contenuti diversi, ma tali da intrecciarsi in modo da inibire la comunicazione affettiva necessaria per il buon funzionamento della famiglia.
Ci è parso interessante tentare una riflessione sul caso, perché ha coinvolto, come abbiamo già accennato sopra, non solo i componenti del nucleo familiare, ma anche le analiste che si occupano del caso. Una di noi segue infatti i genitori, l'altra il bambino. Tra le colleghe lo scambio di pensiero è ed è sempre stato costante.
Filippo è un bel bambino di 8 anni e mezzo di origine italiana, intelligente e con capacità intuitive e di insight non comuni.
Le sue difficoltà scolastiche sono legate soprattutto al comportamento, alla sua incapacità di contenersi e di controllare l'aggressività e quindi di riuscire a stare insieme agli altri bambini anche in classe. Non sopporta le critiche, può cancellare e strappare tutto quello che ha scritto sul quaderno se gli sembra che non corrisponda alle sue aspettative. E davanti alla frustrazione diventa aggressivo e intrattabile.
Pensa che gli altri siano bravi e lui no, perché è diverso, è un bambino abbandonato.
Da un po' di tempo in seduta dopo qualche parola della sua terapeuta le chiede "cosa vuoi dire?" oppure afferma "non ho capito".
Non è un bambino dal linguaggio povero, tutt'altro. Quando la terapeuta cerca di capire meglio cosa significhi questo suo non capire e gli chiede di spiegarglielo meglio, perché anche lei non capisce cosa lui non riesca a comprendere, risponde in modo sorprendente: "è che non capisco il concetto".
Quale può essere il concetto che Filippo non capisce? È il bambino che già anni prima (aveva solo cinque anni) aveva detto "come è possibile che una mamma ti tiene 9 mesi nella pancia e poi ti abbandona così !!!"
E' questo il concetto che non può capire. Come si possa abbandonare così un bambino che si è portato nella pancia per nove mesi. E questa non comprensione fondamentale si estende anche alla comprensione delle 'parole' della terapeuta, della maestra, dei genitori. Tutte le parole diventano prive di senso se manca il sapere delle proprie origini. E' un nuovo muro che ci riporta al muro di lettere incomprensibili, dove è difficile ritrovare il significato delle singole parole e il senso del narrare.
Le terapeute si raccontano questo flash dell'analisi di Filippo.
La prima reazione è stata di meraviglia e poi di molti pensieri e domande. Come è possibile che un bambino capace di formulare una frase in cui afferma di non capire il concetto, possa dire di non capire? E' vero che parla di concetto, ossia del significato che va al di là delle parole che il concetto contiene, ma non sempre è una conoscenza che può essere data per scontata. Ma quale è il concetto che non capisce veramente Filippo? Non le parole quindi, ma il significato che è nascosto in quelle parole che afferma di non capire. Solo che la mancanza di chiarezza è tale anche per chi lo ascolta, che non riesce a capire a sua volta cosa Filippo intenda dicendo "non capisco il concetto".
Dopo un pomeriggio occupato anche nell'ascolto della musica, la terapeuta che segue i genitori si accorge di continuare a pensare alla frase di Filippo.
Le diventa improvvisamente evidente il collegamento con il padre che dice del rapporto col figlio: "Ogni tanto, parlandogli, mi trovo come davanti a un muro, non riesco a farmi capire".
Il padre viene anche lui da una storia molto dolorosa. Quando aveva solo 13 anni, suo padre, a cui era legatissimo e che era sempre stato con lui affettuoso e grande amico, colpito da un grave ictus, non gli parlava più, era come un muro.
Ma c'è molto di più: la mamma, essendo anche lei una figlia adottiva, dopo un periodo tormentato, ha preso la sofferta decisione, sollecitata anche dalle continue curiosità di Filippo, di fare istanza per avere notizie della propria madre naturale. Si è trovata davanti alla dolorosissima scoperta che sua madre aveva dichiarato alla nascita della figlia "di non voler essere nominata", rendendo così giuridicamente impossibile ottenere notizie.
E allora tutti insieme, sollecitati da Filippo possiamo cominciare a capire cosa sia il terribile concetto che finora, pur conoscendolo, nessuno ha capito nella profondità della sofferenza in esso contenuto, che ha unito nel silenzio i tre componenti della famiglia: Filippo non capisce perché una madre possa abbandonarti dopo averti tenuto nella pancia; il padre, a sua volta, non aveva capito perché suo padre non gli parlasse più; la madre non capisce perché una madre, sua madre, possa aver messo al mondo una figlia e poi abbia dichiarato di non voler essere nominata.
Tre muri terribili che non possono essere varcati e continuano a nascondere il significato che sta all'origine del dolore subìto. Davanti a un simile sbarramento 'non si capisce veramente il concetto', non si capisce cosa significhi un abbandono così terribile e definitivo.
Il concetto è un'astrazione che riguarda una pluralità di entità o di cose, sinteticamente epresse col termine che le riassume. Il concetto che Filippo non capisce riunisce il riferimento a tre perdite importanti per padre, madre e figlio. Perdite di genitori naturali che non si capiscono e creano profondo dolore.
E' il dolore incomprensibile che non permette la comunicazione.
Come è possibile parlare a qualcuno di qualcosa di cui non si comprende il significato? E' questo che Filippo dice alla sua dottoressa: quello di cui mi parli non si può capire.
Ci hanno fatto pensare la coincidenza di vissuti così dolorosi nei genitori e nel loro figlio che sembrano avere prodotto un corto circuito nella comunicazione tra i nostri personaggi.
Pensiamo di doverci chiedere se spesso in situazioni di difficoltà, di impasse nei trattamenti, non ci siano alla base dolori psichici gravi considerati non comunicabili.(5)
Crediamo che il blocco e i problemi familiari conseguenti siano determinati, a un certo punto della vita familiare, quando il dolore di uno dei componenti della famiglia si manifesta in modo da sollecitare negli altri sofferenze di uguale profondità, rimaste
silenti per mancanza di qualcuno in grado di pensarle ed esprimerle in parole, perché troppo grandi per essere affrontate.
Il pensatore di cui ci parla Bion.

Andrej e l'angoscia della frammentazione

Il seguente caso ha a che fare con la frammentazione di esperienze di vita primordiale vissute dai bambini adottivi, ma che non facendo parte della memoria autobiografica, non sono esprimibili in parole in un contesto narrativo che dia loro significato.
Andrej, un bambino di 9 anni, adottato a 3, per lunghi mesi durante le sue sedute fa giochi ripetitivi e privi di apparente significato. Ricopre tutto di un manto di stupidità e non senso in un pensiero che trasmette solo immagini senza profondità. Dice di sé stesso: "Non so approfondire i testi".
Notiamo che anche lui, come Filippo, dice esattamente qual è il suo problema, adoperando una frase che certamente non è una frase semplice e che denota una notevole capacità di pensiero.
Invece sembra voler spegnere la sua mente e quella della sua terapeuta attaccando ogni capacità di pensare. La terapeuta assiste impotente non riuscendo a trovare un modo di trasformare il magma indistinto in qualcosa che suggerisca un germe di pensiero. A tratti la sua irraggiungibilità si traduce nel dare l'impressione che la sua mente sia letteralmente andata a pezzi. Questa situazione di mancanza di pensiero diventa talmente intollerabile che è molto difficile rimanergli accanto. Possiamo supporre che ci sia in Andrej un drammatico dolore? Oppure la frammentazione è lei stessa la dimostrazione dell'impossiiblità di provare la sofferenza?
E' quello che succede a persone-bambini ancora troppo fragili e che non hanno accanto adulti capaci di trasformare in pensiero tollerabile situazioni di angoscia catastrofica. Andrej mette la sua dottoressa nella stessa condizione di disperazione in cui lui si trova, in modo che capisca il non senso della vita in cui è stato proiettato con l'abbandono prima e l'adozione poi.
Andrej non riesce a mettere insieme un quadro complessivo della sua esistenza.
In una seduta di diversi mesi dopo l'inizio della terapia, Andrej costruisce con dei fogli e lo scotch un cestino per la carta da riciclare. Sopra ci scrive riciclo e attacca l'adesivo di un coniglio con su scritto "io vivo nell'oasi". Come non pensare a lui chiamato dai genitori "piccolo coniglietto della steppa" che ha trovato un luogo-oasi dove proteggersi?
Ma anche la rappresentazione di un contenitore-mente (la sua dottoressa) dove può mettere finalmente i suoi frammenti da riciclare, nel senso di prendere, raccogliere, mettere insieme questi spezzoni per bonificarli (gathering del transfert, dice Meltzer (6) e si potrebbe aggiungere, partendo dal nome della Dottoressa che lo cura "gattering", da Gatti, che raccoglie), come persona che permette l'unificazione delle sue memorie. Uno scrigno della memoria, di cui parla appunto Artoni (2006,79), che gli permetta di avvicinarsi alla sua storia.
Lo scrigno della memoria per un bambino vissuto nella sua famiglia di origine, è costituito dalla memoria della madre, del padre e non solo, ma dalla catena dei familiari e degli antenati. Nel caso di questi bambini senza una storia conosciuta, lo scrigno della memoria
si costituisce nella mente dei genitori adottivi nel corso della vita in comune, anche con i frammenti di vita del nuovo figlio che si conoscono e si possono ricostruire. E' la carta riciclata di Andrej. Il terapeuta può essere un tramite-catalizzatore importante per favorire la capacità di cogliere, e apprendere quindi, il valore e la possibilità di riunire anche quello che è stato 'rotto'.
Ferro (2007) dice: "favorendo la costituzione dell'apparato per sognare capace di restituire la verità su se stessi".
Nelle sedute seguenti Andrej si dedica alla costruzione di un calendario che vuole arricchire con delle immagini.
Ci pensa per un po' e poi decide: saranno delle foto che lo ritraggono.
E' comune che verso la fine dell'analisi i ragazzi adottati costruiscano qualcosa che ha a che fare col rimettere insieme i frammenti di sé stessi.
Pensiamo a una bambina, diventata adolescente, che verso la fine del percorso terapeutico ha voluto fare l'albero genealogico della sua famiglia.
Su tre fogli allineati orizzontalmente traccia i "rami" della sua famiglia adottiva con molta precisione, attenzione e compiacimento. Il tronco (base) è costituito da lei e dal fratello. Solo dopo alcune settimane comunica che "manca qualcosa", aggiunge un ulteriore foglio, attaccato proprio sotto al tronco, dove scrive Russia.
Le linee tratteggiate che lo collegano e la collocazione spaziale fanno proprio pensare alle radici di questo albero della discendenza.
Radici tratteggiate, recise e in fondo un cerchio e un rettangolo vuoti, la madre e il padre naturali.
In questa linea di pensiero riteniamo molto importante anche il calendario fatto da Andrej che segna il passare del tempo e quindi la costituzione della possibilità di sentirsi parte di un mondo in divenire.
Andrej inizia a portare in terapia suoi ritratti degli anni precedenti sino ad arrivare, seduta dopo seduta, ad una foto dei suoi tre anni (ricordiamo che è stato adottato proprio a 3 anni).
Le foto degli anni in istituto non esistono, ma al momento per Andrej è difficile anche tentare di ricostruire e ricomporre frammenti di un'esperienza interrotta.
"Ero un ninin" dice Andrej "un semino nella pancia della signora" sembra quasi cullarsi nelle sue parole, ma subito l'incanto si interrompe e cambia discorso per non precipitare nel vuoto di un abbraccio di un'immagine materna che non tiene e che lascia cadere e dice: "no, no... fa troppo schifo!".
Questa paura è il terrore senza nome (Bion) di essere lasciato andare in una caduta senza fine e senza argini.
Di questo, oltre a Bion ci parlano gli autori che si sono occupati dei segni di terrore che manifestano i neonati in condizioni di mancanza di accudimento adeguato (Vallino-Macciò, 2006).
Impossibile non collegare Andrej a Filippo che diceva: "come è possibile che una donna ti tenga nella pancia nove mesi e poi ti abbandoni! ...! "Fa troppo schifo!" aggiunge Andrej completando il discorso.
Quello che diventa mostruoso è il mettersi in contatto con qualcosa di profondo che è nel mondo interno di questi bambini e che rimanda a un'angoscia catastrofica, residuo di esperienze appartenenti ai primi periodi della loro vita ancora non pensabili.
L'esperienza importante per Andrej è di trovare una mente che possa accogliere e contenere il dolore e lo schifo che lo invade al pensiero delle vicende dei primi tempi della sua vita, per costruire uno spazio dove il senso dell'esperienza possa prendere forma in modo positivo e costruttivo: l'apertura al futuro insieme all'esperienza del passato e quindi
alla memoria e al ricordo. Si può agevolmente pensare che l'apertura a nuovi pensieri sia una condizione perché anche l'apprendimento diventi possibile.
E' affascinante notare come una narrazione-costruzione che Andrei può fare con l'aiuto della mente ricettiva e non espulsiva della terapeuta, sia determinante per la trasformazione, che avviene in parallelo anche a scuola.
Andrei infatti comincia ad appassionarsi alla storia che ripassa ed approfondisce con il padre (7) e comincia a prendere buoni voti in questa disciplina.
E' molto comune che questi bambini non amino affatto la storia.
Già all'inizio dello studio della storia le insegnanti spesso adottano il sistema, per dare loro l'idea dello svolgersi degli avvenimenti, di chiedere ai bambini di scrivere o raccontare una piccola storia dell'inizio della loro vita.
Capita molto spesso che i bambini adottati vadano in crisi perché non conoscono o non ricordano gli avvenimenti di cui dovrebbero raccontare e non vogliono parlare del loro essere stati abbandonati, che vivono come una profonda ferita narcisistica. Quindi è molto facile che non scrivano e non disegnino assolutamente niente.
E per Andrei la storia ritorna ancora qualche mese dopo in una maniera differente: in una seduta Andrei all'improvviso dice: "domani devo andare a fare un esame al cuore". La terapeuta capisce che si tratta dell'elettrocardiogramma quando il bambino le spiega che si ottiene un tracciato "che è la storia del cuore" .
Questo permette di parlare di più storie del cuore, quella dell'organo che pompa il sangue, ma anche la storia del cuore delle emozioni, del sentire, della mente "bisogna ricordarsi di tutto quello che è successo" dice Andrei, e anche, pensa la terapeuta, del dolore senza nome, catastrofico dell'abbandono.
A questo punto alla terapeuta viene in mente un disegno fatto in una seduta precedente a quella riferita, ma che è molto significativo: Andrei ritaglia da un foglio un quadrato circa delle dimensioni di una fotografia, vi traccia sopra un volto su cui incolla due cerchi (ritagliati da una delle sue fotografie) che completa riempendoli di tanti cerchi rossi concentrici, quasi una spirale. Dietro lui ha scritto, a commento "Gli occhi che hanno visto l'inferno".
Da questo momento incominciano ad emergere i terribili ricordi dell'istituto in cui è stato in Russia.
Non possiamo non ricordare accanto agli "occhi che hanno visto l'inferno", la frase di un'altra bimba rimasta in uno di quegli orfanotrofi dell'Europa dell'est per più di un anno in un lettino di quelli coperti da una rete. Dice di se stessa: "Quando ero morta", volendo riferirsi a quel periodo. Anche qui potremmo unire le due frasi e dire: "Quando ero morta c'erano occhi che hanno visto l'inferno".
Da ultimo una nota di serenità: vorremmo raccontarvi di Adi-neutrino di cui ci siamo già occupate in altra occasione. (8) Nel caso di Adi è la storia che continua.
Adi, di origini russe, oggi è una ragazza di 19 anni seguita in terapia per 8 anni, che ha ormai concluso il suo lungo percorso terapeutico.
Adottata all'età di 7 anni, venendo in Italia perde in apparenza del tutto la conoscenza della sua lingua: non sa più né parlare né scrivere il russo, non ne ricorda nemmeno una parola.
L'ultima tappa della crescita interna di Adi, che ci piace definire un viaggio attraverso l'universo-mente alla scoperta delle sue origini, è ben narrata nell'episodio che segue: Adi decide di iscriversi a una scuola per ri-imparare il russo. Per essere ammessa deve fare un colloquio con un'insegnante madrelingua e inaspettatamente lo sostiene interamente in un discreto russo.
Nulla di magico, questo è il risultato di un lungo lavoro psicoterapeutico individuale parallelo a quello dei genitori tuttora seguiti da una di noi, che a poco a poco ha fatto riemergere immagini interne che hanno potuto così sostenere una memoria di sé e far accedere al luogo delle proprie origini che la lingua materna, appunto, concretamente rappresenta.
Hannah Arendt in un'intervista parla della lingua materna, il tedesco, che per molti anni non ha parlato e ha quasi voluto dimenticare come di una lingua, dice: "che ha avuto origine nel fondo della mia mente (...) e questo non si potrà mai ripetere" e ancora "... non esistono alternative alla lingua materna. Certo, la si può dimenticare, come ho potuto vedere."

CONCLUSIONI

Si può concludere con qualche pensiero generale? Forse ancora no.
E' risultato evidente dal nostro lavoro, che ogni bambino ha proprie strategie di apprendimento che vanno scoperte, capite e favorite nel senso soprattutto di rimuovere gli ostacoli psicologici che si oppongono a un libero fluire del pensiero.
Non è certamente una particolarità dei bambini adottivi perché, se andiamo a cercare in profondità, ogni piccolo umano apprende secondo suoi criteri particolari.
Nei bambini adottivi però possiamo sottolineare che esistono difficoltà specifiche.
Gli ostacoli più evidenti sono in genere quelli che hanno a che fare con l'impossibilità di pensare alle proprie origini.
Ipotizziamo che questo blocco costituisca un impedimento verso ogni forma di apprendimento che venga in qualche modo, esplicito o meno, ricollegato all'abbandono subìto.
L'abbandono è una ferita narcisistica primaria eventualmente rimarginabile e cicatrizzabile, ma inguaribile in profondità.
"Perché sono un bambino abbandonato e, quindi, diverso".
Questo è il pensiero che sta alla base del loro sentirsi inferiori ai propri compagni e comunque con caratteristiche diverse e con mancanze primarie fondamentali. Per il momento non possiamo dire altro che il lavoro con quelli di loro che hanno difficoltà scolastiche si svolge soprattutto nella direzione di portarli a poter pensare al dolore che si portano dentro relativamente a questa loro condizione
Vorremmo aggiungere una nota che ha a che fare con una triste situazione politica di questo momento: sembra che si stia pensando di costituire classi per i bambini stranieri che non parlano bene l'italiano.
Come non pensare che anche i bambini adottati stranieri di origine potrebbero essere confinati, ghettizzati meglio, in classi che fanno tanto pensare alle vecchie classi differenziali?
E' di conoscenza generale che l'apprendimento è favorito in modo essenziale dalla relazione con gli altri e con i coetanei in particolare.
Come è possibile pensare che si prendano provvedimenti così dannosi per bambini che non hanno la possibilità di difendersi?
E' molto facile pensare che si colpiscano i più deboli perché non possono protestare... Forse (protestare) potremmo farlo noi che di questi piccoli ci occupiamo "per farli stare meglio".


BIBLIOGRAFIA

ANDERSEN H.C., La regina della neve in Fiabe, Einaudi, 1954
ARTONI SCHLESINGER C., Adozione e oltre, Boria, 2006
BION W. R., Addomesticare i pensieri selvatici. Franco Angeli, 1997
BION W.R., - "Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico", Armando 1970
DI BENEDETTO A., Prima della parola: l'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell'arte. Franco Angeli, 2000
FERRO A., Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Raffaello Cortina, 2007
D. GROSSMAN Ci sono bambini a zigzag, Mondadori, 2007
KAES R., FAIMBERG H., ENRIQUEZ M., BARANES J.J, "Trasmissione della vita psichica tra generazioni", Boria, 1995
MELTZER D. "Il processo psicoanalitico" Armando 1971 (The Psychoanalytic Process, Heinemann, Londra 1967).
SALZBERGER I. et al., "L'esperienza emotiva nel processo di insegnamento e di apprendimento", Liguori, 1987
VACIAGO SMITH, Aspetti emotivi dei disturbi di apprendimento, in PONTECORVO M., Esperienze di psicoterapia infantile: il Modello Tavistock, Psycho, 1986
VALLINO D., MACCIÒ M., Essere neonati, II ed., Boria, 2006

NOTE
(1)Bion W.R. Addomesticare i pensieri selvatici. Franco Angeli, 1997
(2)D. Grossman "Ci sono bambini a zigzag"
(3)Mancia M. per la ricca bibliografia in proposito vedi Artoni "Adozione e oltre", Borla, 2006
(4)Il problema delle divisioni è un altro degli scogli che incontrano i bambini adottati. Si può pensare che anche questo sia un problema legato alle separazioni? Sembra un'ipotesi plausibile.
(5)Vedi Kaes R., Faimberg H., Enriquez M., Baranes J.J: "Trasmissione della vita psichica tra generazioni", Borla, 1995. Probabilmente queste situazioni hanno a che fare con trasmissioni psichiche non elaborate e non elaborabili che sono state passate da una generazione all'altra, ma non
comunicabili perché appartenenti a segreti appunto non conosciuti.
(6)Vedi Meltzer (1971)
(7)In alcuni casi abbiamo visto emergere l'importanza dei padri nella ricostruzione della storia complessiva del figlio. Ossia i figli si rivolgono ai padri, piuttosto che alle madri, per avere notizie dei loro periodi di vita prima dell'adozione. Le madri invece vengono interpellate come portatrici della storia della famiglia attuale.
(8)Intervento, non pubblicato, fatto presso il Chaba di Mendrisio (Svizzera) l' 8.10.2005. Oltre all'intervento al Convegno sulla Mente primordiale, vedi Artoni, Adozione e oltre.

mercoledì 11 marzo 2009

E dopo?

Il nostro blog ha riportato alcuni interventi pubblici in merito alla prospettata costruzione di un centro per giovani bisognosi di un periodo di contenimento (vai a "Niente di personale"di mercoledì 11 febbraio).

Cosa c’entra questa problematica con l’adozione? In parte ha già risposto la madre del giovane processato a Lugano per bullismo e violenza.
Il malessere che spesso porta con sé il figlio abbandonato e adottato è largamente sottovalutato. I meccanismi con cui egli rivolge la sua aggressività contro di sé, contro gli altri e anche verso i genitori, sono spesso ignorati o non sufficientemente compresi anche da non pochi addetti ai lavori (psichiatri, psicologi, pediatri, docenti, ecc.) con la conseguenza grave di non ricevere un aiuto adeguato.

“Come altre vittime di un trauma, gli adottati spesso spostano la rabbia per ciò che è accaduto loro, sulle persone che li accudiscono. Sebbene alcuni adottati che si sono riuniti ai loro genitori di nascita, affermino di provare rabbia verso le madri naturali o la società che è stata la causa della loro separazione, altri diranno di non provare ostilità nei loro confronti. Ciononostante tutti loro hanno dimostrato un comportamento oppositivo e un’intensa rabbia verso i genitori adottivi. Paradossalmente verso quegli stessi genitori adottivi sentono anche una forte dipendenza e il bisogno di legarsi a loro. Questa ambivalenza provoca una grande confusione e un comportamento incomprensibile(…).”


“Purtroppo le loro reazioni di difesa producono spesso proprio il risultato che gli adottati temono: l’abbandono. I figli adottivi finiscono per essere mandati in comunità terapeutiche, scuole speciali o semplicemente in strada”. (Nancy Newton Terrier, La ferita primaria, comprendere il bambino adottato, il Saggiatore, 2007, pag.105 e 106).

Ecco perché le strutture di contenimento ma soprattutto gli strumenti d’aiuto verso il malessere di bambini e adolescenti e anche adulti ci interessano in modo particolare.

Rispetto al centro di contenimento di cui si parla (10 posti per 3 mesi!), concordiamo con quanto detto al “Regionale” TSI 1 del 12 febbraio 2009 dal Direttore della Fondazione Amilcare, Raffaele Mattei:

Chiudere i ragazzi per tre mesi, poi, dopo, cosa facciamo con questo ragazzi?. In Ticino sono anni, decenni che si parla di pianificazione per i minori, per gli adolescenti e non c’è nessun tipo di pianificazione e le strutture esistenti, dopo un periodo dove i ragazzi sono chiusi dentro, non esistono; c’è un solo tipo di struttura che sono gli istituti sociali.

Se pensiamo solo alla struttura chiusa, di sicuro, non risolve i problemi, anzi, a mio parere, li potrebbe anche aggravare, perché se noi chiudiamo dentro un ragazzo, che è arrabbiato perché ha subito, e lo chiudiamo dentro per te mesi, e non troviamo una soluzione, questo esce più arrabbiato di prima eh, detto così “terra a terra”.


Il Ticino è largamente carente di offerte formative e di strutture adeguate ad accogliere e comprendere il grave disagio dei giovani. Le manifestazioni violente si assomigliano tutte, ma diverse e del tutto specifiche sono le cause che le producono.

Per quanto ci concerne riteniamo fondamentale che la cultura dell’adozione, e le conseguenze dei traumi dell’abbandono, vengano largamente conosciute. È un lavoro che dovrebbe iniziare fin dalle scuole dell’infanzia così da divenire, col tempo, patrimonio della cultura del nostro paese.

Col nostro lavoro intendiamo dare un modesto contributo all’avanzamento di queste conoscenze e sostenendoci tra noi genitori pensiamo di essere d’aiuto anche ai nostri figli.

venerdì 13 febbraio 2009

Seminario CIAI Milano

Segnaliamo il seminario "Essere figli adottivi adulti" che si terrà a Milano sabato 28 marzo 2009 dalle ore 9 alle ore 13 presso la Casa della Pace in via Ulisse Dine n.7.
Durante il seminario, organizzato dal Ciai con il patrocinio della Regione Lombardia, si affronterà "L'esperienza di essere stati adottati: i diversi significati nel corso del tempo", "La ricerca di informazioni sul proprio passato" e "Il viaggio di ritorno nel Paese di nascita". La partecipazione è gratuita previa iscrizione. La scheda di adesione e il programma sono scaricabili dal sito www.Ciai.it. L'iscrizione dovrà essere inoltrata alla segreteria organizzativa all'indirizzo e-mail eventi@ciai.it oppure al numero di fax 028467715 entro il 20 marzo.

mercoledì 11 febbraio 2009

Marco Bottini. Un centro acuto per adolescenti aggressivi

Il giudice dei minorenni Reto Medici afferma che in Ticino un centro per aiutare, contenendoli, i giovani delinquenti,"non può attendere...è una priorità" (cfr. 'la Regione'6 febbraio 2009). Io, per motivi professionali, conosco il giovane "figlio adottivo", processato la scorsa settimana a Lugano per violenza e bullismo, conosco la sua famiglia e pure la vittima principale,e so quanto lutti loro, per anni, hanno sofferto. Per anni infatti questa famiglia è stata confrontata all'assenza di una struttura in cui il figlio adolescente potesse veramente essere contenuto, protetto e curato.
Negli anni Settanta, a Torricella, un centro del genere esisteva; era il cosiddetto "Centro minorile", poi è stato chiuso. Siccome però il problema della delinquenza giovanile continuava ad esistere, agli inizi degli anni ottanta è stato costituito un gruppo di lavoro cantonale (di cui facevo parte) avente lo scopo di preparare l'apertura di un nuovo centro: l'allora giudice dei minorenni, Eggenschwiler ne aveva capito l'importanza. Quando però Patrizia Pesenti subentrò alla giudicatura minorile subentrò alla giudicatura minorile, affossò il progetto: lei a questo tipo di istituzioni non credeva.
E così per decenni non si è fatto più niente, e diversi giovani molto problematici hanno continuato ad essere inseriti in istituti e foyer non idonei al loro contenimento, salvo ad essere inviati nella Svizzera interna (perciò fuori contesto culturale), nei casi più estremi.
Io non ho mai cavalcato ideologie repressive care a certa destra, né mi ritengo aggressivo in quanto a temperamento. Avendo però lavorato per decenni con ragazzi problematici, posso dire con convinzione che la mancanza di mezzi efficaci per il contenimento della prepotenza che i giovani aggressivi manifestano si traduce, oltre che in un danno per le vittime e per la società in genere, anche in un gravissimo danno per il giovane stesso, che non farà che peggiorare i suoi comportamenti. Provate a mettervi per un attimo nei panni del ragazzo che ogni giorno aggredisce qualcuno a parole e con i fatti e che, di fronte ad un adulto che interviene (genitore o educatore in un foyer, poco importa), lo manda "affa..." senza che gli succeda niente, e va avanti a comportarsi come prima.
Quel giovane si convincerà sempre di più di essere onnipotente. Se poi l'adulto, frustrato e impotente, osa minacciarlo di un ceffone, lui risponderà: "Prova a toccarmi che ti denuncio!" L'adulto, per non finire sui giornali e sotto processo, lascerà perdere, e così il giovane si sentirà ancora di più invincibile, come i bulli dei molti film o giochi elettronici che plagiano la sua mente. Concordo pienamente con Medici: un centro per gli adolescenti ingestibili nelle normali "strutture aperte", in Ticino è indispensabile, perché è l'unico modo per far sentire al giovane che esiste qualcosa e qualcuno che ü più forte della sua aggressività, che finisce a contenerla e che gli impedisce di scappare quando e come vuole. Soltanto quando il suo bisogno di fare il bullo non potrà più esprimersi liberamente, il giovane sarà in grado di concentrare le proprie energie in altri campi, potrà imparare un mestiere e fare delle esperienze positive e valorizzanti,
Perciò non si perda ulteriore tempo!


Pubblicato su "la Regione Ticino" dell'11 febbraio 2009

Niente di personale

In Ticino non esiste una casistica aggiornata del disagio adottivo e manca un servizio di pronto intervento specialistico in caso di crisi. Ritrovare sulla stampa ticinese la proposta dell’avv. Reto Medici, magistrato dei minorenni, di creare, in tempi brevi, una struttura di “pronta emergenza” per aiutare e contenere gli adolesenti problematici ed aggressivi ci fa sentire meno soli. Restiamo d'altra parte in attesa di poterne valutare la portata e l'adeguatezza allorché verranno rese note le sue caratteristiche e la sua organizzazione.
Tutti noi abbiamo cercato di “indirizzare”, “aiutare e “contenere” i nostri figli e di trovare soluzioni; “non siamo di quelli che pretendono e basta”.
Le espressioni virgolettate sono riprese dalla lettera indirizzata a “la Regione Ticino” - e pubblicata venerdì 6 febbraio - dalla mamma del ragazzo adottivo processato a Lugano per bullismo e violenza. È una mamma provata da anni di lotte, ma soprattuttto è un' amica, è una di noi; lei e il marito hanno deciso di non mollare, di continuare ad impegnarsi giorno dopo giorno.
Pubblichiamo anche noi il testo della lettera e ne facciamo il nostro manifesto.

Sono la mamma del ragazzo processato ieri a Lugano per violenze.
Voglio esprimere il mio dolore. Non quello privato, famigliare, intimo.
Ma un dolore che deve essere espresso socialmente.
Quello che è stato scritto sui giornali è vero, con varie sfumature.
Cronaca.
Dopo c’è tutto il resto.
Non sapevamo quello che faceva nostro figlio all’esterno.
Quando abbiamo intuito e poi subìto noi stessi, siamo intervenuti per farlo fermare.
E’ importante: evidentemente non voglio giustificare, ma far capire.
La nostra è una lunga storia di difficoltà, tentativi, ricerca di aiuti, disorientamento. Anche gioie, per carità; ma da tempo e per ora non prevalgono più.
La nostra famiglia è andata avanti grazie alla nostra tenacia, all’aiuto degli amici, all’incontro con alcune “perle rare” impegnate nel sociale che si sono aperte alla comprensione, al gruppo di genitori adottivi con cui ci incontriamo.
Non abbiamo abbandonato nostro figlio, abbiamo cercato di indirizzarlo, aiutarlo, contenerlo.
I giornali scrivono “figlio adottivo”. Adottivo o meno è sempre figlio, profondamente e completamente.
Però l’adozione è giusto nominarla; ma per un altro motivo, che - una volta detto - sembra evidente: prima dell’adozione c’è l’abbandono. Per povertà, ignoranza, superficialità, disperazione, problemi sociali o di salute, rifiuto. Tanti possono essere i motivi, ma comunque per chi è stato abbandonato sono incomprensibili e spesso devastanti.
Tanti sono i ragazzi adottati in difficoltà e di conseguenza i loro genitori.
Stiamo cercando di arrivare alla consapevolezza di questo, fra le famiglie in difficoltà e con le istituzioni. Creare la “cultura dell’adozione” per intervenire quando ce ne sia bisogno.
Il debriefing è ormai pratica comune quando accadono avvenimenti di forte stress. Come è giusto!
Ma allora forse bisognerebbe avere anche un occhio discreto e sensibile verso i bambini che hanno subìto un’esperienza tanto traumatica, un sostegno ai genitori che ne sentano il bisogno.
Per ora, quando i problemi esplodono, cosa succede? Prima di tutto, una distinzione fra sotto e sopra i 18 anni. Come se problemi e persone non fossero sempre gli stessi.
E poi? Tentativi nelle strutture a disposizione, che dopo un po’ “dimettono” perché non adatte alla casistica.
Comprensibile. Però di questi ragazzi che ne facciamo?!
Una volta ci hanno detto che nostro figlio non rientrava in nessuna categoria: non delinqueva, non era tossico, non era psichiatrico. Nessuno ha risposto alla mia domanda: “dobbiamo aspettare che sia inquadrato in una di queste categorie? non si può aiutarlo prima?”.
E a questo punto non siamo più nella definizione “adottati”. Qui siamo nel campo dei ragazzi o delle persone in difficoltà e senza un aiuto adeguato.
Mio figlio ha perseguitato e colpito un ragazzo minorenne in difficoltà. Anche lui una vita di tentativi, di istituti, fallimenti e poi ............ una sistemazione in un garni, l’accompagnamento di un tutore bravo, ma che deve occuparsi di altre decine di casi.
Il mio dolore, profondo e disperato, va anche a questo ragazzo, alla sua sofferenza, alla sua solitudine.
Pochi anni fa, è stato dichiarato che i casi problematici si potevano contare sulle dita delle mani. Già allora in parecchi siamo rimasti stupiti da questa minimizzazione.
Ma ora il numero dei “casi” è decisamente e chiaramente aumentato, come sembra aumentare l’impotenza di chi se ne dovrebbe occupare.
Non ci sono strutture in Ticino. Bisogna andare in Svizzera francese o tedesca e bisogna conoscere un po’ la lingua, se hanno posto, se accettano, se se se ..........
Ho come la sensazione che la società cambi, ma lo stato non riesca a star dietro al cambiamento.
Ci sono gruppi di studio, proposte, approfondimenti.
SCUSATE: noi (e intendo evidentemente non solo la mia famiglia, ma tutti quelli che sono nelle stesse condizioni problematiche) abbiamo bisogno subito di un aiuto concreto, che poteva essere programmato già da anni, come del resto richiesto da anni da non pochi operatori.
In tutti questi anni difficili per la mia famiglia, ci siamo impegnati come potevamo per cercare soluzioni. Non siamo di quelli che pretendono e basta.
Pensiamo anche che sia fondamentale la solidarietà e l’aiuto fra persone, fra amici. E’ quello che abbiamo ricevuto e dato. Continueremo a impegnarci.
Ma a volte non basta.
Questa mia lettera non vuole essere nel modo più assoluto polemica. Vuole esprimere le mie riflessioni e i miei sentimenti, soprattutto a quanti possono capirli perché li vivono loro stessi in prima persona.

martedì 10 febbraio 2009

È capitato anche a voi?

Alcuni comportamenti dei nostri figli ci risultano incomprensibili e ci spaventano. Spesso ci sentiamo in difficoltà a parlarne con altri genitori. Come si fa ad ammettere che il proprio figlio ruba oppure che compie atti di vandalismo oppure che è aggressivo in famiglia e, ancor più grave, non sembra dimostrare un serio ravvedimento, al punto da farci dubitare che in futuro eviterà di ripetere azioni tanto riprovevoli?
Diciamo subito che non sono pochi i genitori adottivi alle prese con questi problemi. Ognuno poi reagisce a suo modo: alcuni minimizzano, altri ne fanno un dramma ma penso che tutti alla fine si chiedano: “Perché proprio a me? Dove ho sbagliato? E adesso cosa faccio?”. Ma è corretto parlare di sbaglio?

Il testo riportato qui sotto è di Donald W. Winnicott: è una sua conferenza del 1956 (!) pubblicata nel libro postumo Il bambino deprivato, Cortina ed.,1986.

“Un’amica mi chiese di discutere il caso di suo figlio, il maggiore di quattro bambini (…); egli rubava a piene mani sia nei negozi sia in casa.(…) Le spiegai dunque il significato del furto e le suggerii di trovare il momento adatto, nel suo rapporto con il bambino, per interpretarglielo. Ogni sera lei e John ( così si chiamava il figlio) godevano di una buona, reciproca intesa per alcuni minuti, dopo che il bambino era andato a letto. Di solito, in quei momenti, a lui piaceva parlare delle stelle e della luna. Questo poteva essere il momento adatto. Dissi: - Perchè non spiegargli che lei sa che quando ruba non vuole le cose che ruba, ma è alla ricerca di qualcosa a cui ha diritto, che reclama dalla madre e dal padre questo qualcosa perché sente di essere deprivato del loro amore? -.
(…) Qualche tempo dopo ricevetti una lettera dalla madre che mi diceva di aver seguito il mio suggerimento (…). - Gli ho detto che ciò che egli desiderava veramente rubare, quando rubava denaro, cibo e oggetti, era la sua mamma. Devo dire che non mi aspettavo davvero che capisse, ma sembrò invece comprendere. Gli ho chiesto se pensava che non gli volessimo bene perché qualche volta era cattivo, ed egli mi ha subito risposto che era vero, che non credeva che gli volessimo molto bene. Povero piccino! Non posso dirle come sono rimasta male. Ho detto a John di non dubitare mai, mai più, e se gli fossero venuti dei dubbi, di ricordarmi di ricordarglielo. Ma naturalmente per lungo tempo non avrò bisogno che me lo ricordi: è stato un tale colpo per me! Sembra quasi che si abbia bisogno di tali colpi. E così cerco di dimostrargli di più il mio affetto in modo da impedirgli di poterne dubitare ancora. Fino ad oggi non si sono più verificati furti -.
La madre aveva parlato con l’insegnante spiegandole che il bambino aveva bisogno di affetto e stima, e aveva ottenuto la sua collaborazione anche se il bambino era molto difficile a scuola.
Ora, dopo otto mesi, è possibile affermare che non si è più verificato nessun ritorno del furto, e che il rapporto tra il bambino e la sua famiglia è notevolmente migliorato.
(…) Ciò che feci, quindi, ebbe l’effetto di una doppia terapia perché permise a questa giovane donna di comprendere a fondo le sue difficoltà attraverso l’aiuto che fu in grado di offrire a suo figlio. Quando diamo una mano ai genitori a essere di aiuto ai propri figli, in realtà sono i genitori stessi che noi aiutiamo”.

L’esempio citato non riguarda un bambino adottivo. Winnicott usa l’aggettivo deprivato per riferirsi a bambini a cui improvvisamente viene a mancare la continuità di cura garantita dalla madre perché costretta ad abbandonare i propri figli per salvarli dai bombardamenti in tempo di guerra, oppure perché costretta a un lungo ricovero in ospedale, o nel caso di un affidamento o di una adozione o altro ancora. Poichè il legame con la madre viene interrotto in un momento in cui il bambino non ha gli strumenti per capire che cosa gli stia succedendo, egli è vittima di una specie di “black out” emozionale che lo espone ad un’”impensabile angoscia”. La deprivazione può causare effetti devastanti e l’aggressività, sia che si manifesti nel rubare, nel mentire, nel distruggere o altro, non è superata dal desiderio di riparare il danno, di costruire e di assumersi delle responsabilità; processi che il bambino non ha potuto elaborare in assenza di un ambiente stabile e sicuro.
Fortunatamente, sempre secondo Winnicott, le azioni dei nostri figli, che tanto ci spaventano, sono dei segnali di speranza perché sopraggiungono quando essi ritrovano fiducia nella nuova famiglia. Naturalmente è un processo inconscio e non è un caso che essi finiscano per fare del male proprio alle persone che più amano. “Il comportamento antisociale a volte non è altro che un SOS per ottenere il controllo da parte di persone forti, amorevoli e sicure (…). Il bambino normale, aiutato nelle fasi iniziali dalla propria famiglia, sviluppa la capacità di controllare se stesso. Sviluppa ciò che è talvolta chiamato ambiente interno, con la tendenza a trovare un buon ambiente. Il bambino antisociale (…) non avendo avuto la possibilità di far crescere un buon ambiente interno, ha assolutamente bisogno di un controllo dall’esterno per essere contenuto e poter giocare e lavorare”.