mercoledì 22 aprile 2015

Figli adottivi, le origini non si cancellano


Silvia Vegetti Finzi, Figli adottivi, le origini non si cancellano. http://azione.ch/ee/azion/_main_/2014/11/17/011/azion-_main_-2014-11-17-011.pdf


Cara Silvia, è passato un anno da quando, Maria, fi­glia adottiva, è entrata nella nostra casa e nei nostri cuori. Coniugi senza fi­gli, avevamo tentato invano numerosi cicli di fecondazione medicalmente indotta. Ma a un certo punto abbiamo avuto, contemporaneamente, una specie di illuminazione: il bambino tanto atteso non sarebbe venuto da una provetta ma da un’altra parte del mondo, da una famiglia così povera e sventurata che ce lo offriva per salvarlo, perché potesse sopravvivere. Abbiamo «visto», con l’immaginazione, quelle braccia tese e non abbiamo potuto fare altro e spalancare le nostre. Ma non è stata una passeggiata: Maria era così malata che nessuna diagnosi medica sembrava sufficiente, così spaventata da aver paura di noi, così ferita dall’abbandono da aver perso ogni desiderio di crescere. All’inizio ci sentivamo la famiglia positiva che salva quella negativa. Ma ben presto è subentrato un senso d’insufficienza e di impotenza. E solo col tempo siamo riusciti ad andare al di là del sogno di un bambino che ci assomigliasse e ad ammettere: è vero che non ci somiglia, che non ci somiglierà mai. Non è il nostro sogno di bambino biologico, non è il nostro sogno di bambino adottivo ma è «nostra». Da quel momento, solo da quel momento, siamo diventati genitori e Maria ha smesso di essere orfana. Ciò nonostante ci sentiamo ancora fragili e insicuri. Una domanda ci assilla: che cosa ci riserva il futuro? / I genitori di Maria


In linea di massima quello che riserva a tutti i genitori degni di questo nome: che il proprio fi­glio cresca protetto e sorretto dal loro amore. Non un amore possessivo, invasivo, prevaricante ma un sentimento rispettoso dell’alterità dell’altro, della sua unicità, del suo diritto di diventare se stesso, magari diverso da come lo avremmo voluto, ma capace di assumersi progressivamente la responsabilità della sua vita. In questo itinerario, i genitori adottivi risultano favoriti perché, come testimonia la vostra bellissima lettera, trasformando un bambino in ­figlio, hanno già compiuto un profondo lavoro su se stessi. In questi casi il narcisismo, che spesso inquina l’amore parentale, è stato superato da un travaglio interiore che rende più maturo chi lo compie. Paradossalmente, non si tratta tanto di trattare i figli adottivi come biologici quanto, al contrario, di trattare i ­figli biologici come adottivi. Per diventare «­figlio» nel senso umano del termine, non basta che un bambino sia stato concepito nella carne, occorre che venga concepito nello spirito, che un gesto simbolico lo inserisca nella storia della famiglia, pur rispettando la sua unicità. La specie umana non conosce copie: siamo tutti opere d’arte non riproducibili. Nella mia ricerca clinica, mi sono impegnata a osservare il primo incontro tra il neonato e la madre e tra entrambi e il padre e ne ho tratto la conclusione che è da quel reciproco riconoscimento che sorge la vita psichica del nuovo nato. Nel momento fondante si «adottano» a vicenda, come esseri che scelgono di appartenersi. In particolare, nell’adozione ognuno trova negli altri la risposta alla sua carenza: al bambino manca una famiglia, alla coppia adottiva un ­figlio, nel vostro caso un bambino mai nato. Dall’incontro di tre povertà nasce una ricchezza, ma i desideri non devono confondersi né le posizioni sovrapporsi, solo relazionarsi. Nella famiglia non esistono ruoli assoluti: si è genitori nei confronti dei fi­gli e viceversa. Nessuno basta a se stesso ma ognuno ha una zona segreta da cui derivano i propri timori e i propri desideri. Il più grande desiderio di un bambino che, come Maria, è stato strappato alla sua Terra, alla sua cultura, alla sua famiglia, è di veder riconosciuto il trauma che ha vissuto e accolto il suo dolore. Cancellare le origini, far ­finta che alle sue spalle non ci sia nulla, getta un’ombra sulla sua identità. Meglio colmare quel vuoto con simboli, immagini, ricordi: far conoscere al fi­glio adottivo la sua terra (per Maria l’Etiopia), aiutarlo a ritrovare le sensazioni (suoni, odori, sapori) che hanno destato per la prima volta i suoi sensi, renderlo protagonista della sua storia raccontandogli la vostra. Solo quando il passato, integrato nella biografia, avrà acquistato senso e signi­ficato, si faranno strada i processi di riparazione e Maria si sentirà inserita in un mondo che è anche il suo, integrata in una cultura che le appartiene, in una famiglia che lei stessa ha contribuito a formare. Ma poiché nel bene e nel male nulla va perduto, nel profondo della sua memoria, permangono i ricordi di un trauma che, a seconda di come verrà elaborato, potrà trasformarsi in carenza o in ricchezza. Questo principio, evidente nell’adozione, vale per tutti nella misura in cui la vita procede attraverso perdite successive, a partire dal distacco dal grembo materno. L’importante è che siate capaci di accettare la complessità del progetto adottivo e di ammettere, nella storia della vostra famiglia, la compresenza di ombre e di luci, di vuoti e di pieni. Nessuno è così onnipotente da poter cancellare per sempre le tracce del passato. Se riuscirete, come credo, a procedere nel segno della verità, Maria potrà dire di se stessa: «io sono ciò che ho perso, io sono ciò che ho ritrovato». 

Nessun commento: