Silvia Vegetti Finzi, Figli
adottivi, le origini non si cancellano. http://azione.ch/ee/azion/_main_/2014/11/17/011/azion-_main_-2014-11-17-011.pdf
Cara Silvia, è passato
un anno da quando, Maria, figlia adottiva, è entrata nella nostra casa e nei
nostri cuori. Coniugi senza figli, avevamo tentato invano numerosi cicli di
fecondazione medicalmente indotta. Ma a un certo punto abbiamo avuto,
contemporaneamente, una specie di illuminazione: il bambino tanto atteso non
sarebbe venuto da una provetta ma da un’altra parte del mondo, da una famiglia
così povera e sventurata che ce lo offriva per salvarlo, perché potesse
sopravvivere. Abbiamo «visto», con l’immaginazione, quelle braccia tese e non
abbiamo potuto fare altro e spalancare le nostre. Ma non è stata una
passeggiata: Maria era così malata che nessuna diagnosi medica sembrava sufficiente,
così spaventata da aver paura di noi, così ferita dall’abbandono da aver perso
ogni desiderio di crescere. All’inizio ci sentivamo la famiglia positiva che
salva quella negativa. Ma ben presto è subentrato un senso d’insufficienza e di
impotenza. E solo col tempo siamo riusciti ad andare al di là del sogno di un
bambino che ci assomigliasse e ad ammettere: è vero che non ci somiglia, che
non ci somiglierà mai. Non è il nostro sogno di bambino biologico, non è il
nostro sogno di bambino adottivo ma è «nostra». Da quel momento, solo da quel
momento, siamo diventati genitori e Maria ha smesso di essere orfana. Ciò
nonostante ci sentiamo ancora fragili e insicuri. Una domanda ci assilla: che
cosa ci riserva il futuro? / I genitori
di Maria
In linea di massima quello che riserva a tutti i genitori
degni di questo nome: che il proprio figlio cresca protetto e sorretto dal loro
amore. Non un amore possessivo, invasivo, prevaricante ma un sentimento
rispettoso dell’alterità dell’altro, della sua unicità, del suo diritto di
diventare se stesso, magari diverso da come lo avremmo voluto, ma capace di
assumersi progressivamente la responsabilità della sua vita. In questo
itinerario, i genitori adottivi risultano favoriti perché, come testimonia la
vostra bellissima lettera, trasformando un bambino in figlio, hanno già compiuto
un profondo lavoro su se stessi. In questi casi il narcisismo, che spesso
inquina l’amore parentale, è stato superato da un travaglio interiore che rende
più maturo chi lo compie. Paradossalmente, non si tratta tanto di trattare i figli
adottivi come biologici quanto, al contrario, di trattare i figli biologici come
adottivi. Per diventare «figlio» nel senso umano del termine, non basta che un
bambino sia stato concepito nella carne, occorre che venga concepito nello
spirito, che un gesto simbolico lo inserisca nella storia della famiglia, pur
rispettando la sua unicità. La specie umana non conosce copie: siamo tutti
opere d’arte non riproducibili. Nella mia ricerca clinica, mi sono impegnata a
osservare il primo incontro tra il neonato e la madre e tra entrambi e il padre
e ne ho tratto la conclusione che è da quel reciproco riconoscimento che sorge
la vita psichica del nuovo nato. Nel momento fondante si «adottano» a vicenda,
come esseri che scelgono di appartenersi. In particolare, nell’adozione ognuno
trova negli altri la risposta alla sua carenza: al bambino manca una famiglia,
alla coppia adottiva un figlio, nel vostro caso un bambino mai nato.
Dall’incontro di tre povertà nasce una ricchezza, ma i desideri non devono
confondersi né le posizioni sovrapporsi, solo relazionarsi. Nella famiglia non
esistono ruoli assoluti: si è genitori nei confronti dei figli e viceversa.
Nessuno basta a se stesso ma ognuno ha una zona segreta da cui derivano i
propri timori e i propri desideri. Il più grande desiderio di un bambino che,
come Maria, è stato strappato alla sua Terra, alla sua cultura, alla sua
famiglia, è di veder riconosciuto il trauma che ha vissuto e accolto il suo
dolore. Cancellare le origini, far finta che alle sue spalle non ci sia nulla,
getta un’ombra sulla sua identità. Meglio colmare quel vuoto con simboli,
immagini, ricordi: far conoscere al figlio adottivo la sua terra (per Maria
l’Etiopia), aiutarlo a ritrovare le sensazioni (suoni, odori, sapori) che hanno
destato per la prima volta i suoi sensi, renderlo protagonista della sua storia
raccontandogli la vostra. Solo quando il passato, integrato nella biografia,
avrà acquistato senso e significato, si faranno strada i processi di riparazione
e Maria si sentirà inserita in un mondo che è anche il suo, integrata in una
cultura che le appartiene, in una famiglia che lei stessa ha contribuito a
formare. Ma poiché nel bene e nel male nulla va perduto, nel profondo della sua
memoria, permangono i ricordi di un trauma che, a seconda di come verrà
elaborato, potrà trasformarsi in carenza o in ricchezza. Questo principio,
evidente nell’adozione, vale per tutti nella misura in cui la vita procede
attraverso perdite successive, a partire dal distacco dal grembo materno.
L’importante è che siate capaci di accettare la complessità del progetto
adottivo e di ammettere, nella storia della vostra famiglia, la compresenza di
ombre e di luci, di vuoti e di pieni. Nessuno è così onnipotente da poter
cancellare per sempre le tracce del passato. Se riuscirete, come credo, a procedere
nel segno della verità, Maria potrà dire di se stessa: «io sono ciò che ho
perso, io sono ciò che ho ritrovato».
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