domenica 5 aprile 2020

Domande, risposte e trucchi per genitori spaventati



(appunti presi da una mamma in occasione dell’incontro con il dott. Giacomo Mazzonis del 18.02.2020)


 Perché i nostri figli fanno così fatica ad imparare dall’esperienza? Perché ripetono sempre gli stessi errori?

Perché nei nostri figli esiste un forte contrasto tra sistema emotivo e sistema razionale ed è il sistema emotivo ad avere il sopravvento. Noi chiediamo ai nostri figli di pensare prima di agire, di ricordare come devono comportarsi, di riflettere sugli errori fatti per evitare di ripeterli nel futuro. E’ qui l’errore! Questa tecnica va bene per noi ma è un disastro per loro.
Non funziona perché, se oggi sono qui con noi (ed è la minoranza dei bambini abbandonati  quella che va in adozione, quella meno disturbata), è grazie alla loro capacità di elaborare strategie per  dimenticare” le esperienza traumatiche subite. Se non fossero stati in grado di mettere da parte i ricordi non avrebbero potuto farcela. La capacità di cancellare è stata per loro un validissimo aiuto. Il pensiero, invece, è loro nemico. Noi chiediamo di usarlo ma non stupiamoci se poi dimenticano… dimenticano… dimenticano! E in più noi pretendiamo che riflettano sugli errori, sui loro difetti, sulle situazioni che hanno causato ansia e dolore, così da poter migliorare. Questa tecnica è un vero disastro!
Esempio. Non stupiamoci se dopo aver studiato un intero pomeriggio con loro, per preparare una importantissima relazione per la scuola, l’indomani la dimenticano a casa!

Cosa fare?

Non possiamo sostituirci a loro, studiare al loro posto, fare i compiti per loro, ecc. Dobbiamo lavorare per anni ai loro fianchi; dobbiamo creare occasioni per gratificarli (“farli vincere facile”), per far aumentare un po’ alla volta la loro autostima. Non è un problema che si risolve in tempi brevi: occorrono anni ed è meglio farsi aiutare. E non stupiamoci se in alcune fasi della loro vita, da adulti, replicheranno gli stessi comportamenti  tenuti nell’infanzia. Quello che si impara da piccoli resta più impresso perché non si hanno gli strumenti per reagire.  Prima avviene il trauma più vaste sono le conseguenze. Un abbandono a zero giorni è più importante di un abbandono a cinque anni. Certamente le cose cambiano se il bambino, nei cinque anni trascorsi, è stato vittima di ulteriori traumi (violenze, abusi…).
Domanda. Mio figlio a zero anni è stato messo in istituto. Noi lo abbiamo adottato a sette anni  e ora ne ha quindici. E’ con noi da ben otto anni ma sembra non fidarsi di noi. Perché non capisce che gli vogliamo bene? Cambierà?
Risposta. E’ già cambiato! Non si deve paragonare la situazione di un figlio adottivo con quella degli altri bambini della sua età (il cugino, il compagno di classe…). Si dovrebbe, invece,  paragonare la situazione di un figlio adottivo con quella in cui si troverebbe oggi se non fosse stato adottato! Provate ad abbandonare due ragazzi, uno biologico e uno adottato, chi sopravviverà?, chi ce la farà meglio? L’adottato: vostro figlio!

Perché gli adottati adulti possono avere difficoltà a capire i bisogni di accudimento dei figli?
 In una situazione di stress (prodotto, ad esempio, dal pianto disperato dei figli o da una loro ripetuta richiesta di attenzione in un momento del tutto inopportuno) il sistema emotivo ha nuovamente il sopravvento. Quando da piccoli non si è stati considerati, non si sono ricevute attenzioni o, peggio, si sono subiti maltrattamenti dagli stessi genitori, da grandi si potranno avere difficoltà ad accettare come prioritari i bisogni altrui, anche quelli dei propri figli. Non è una questione di insensibilità:  chi non è mai stato al primo posto ha difficoltà a mettersi al secondo (essere genitori vuol dire sapersi mettere al secondo posto). Se ho ricevuto, riesco a dare. Solo se sono stato al primo posto, riesco a stare al secondo.

Perché non si mettono in gioco?

Perché “se non gioco non perdo”. Non accettando le sfide, mantengono la convinzione di essere dei vincenti, di essere come gli altri o più bravi degli altri. Sono presuntuosi. Si persuadono di non trovare mai l’occasione giusta per affermarsi : non lavoro perché non trovo nulla alla mia altezza!
Esempi.
Scuola. Se non studio e prendo due è tutto normale; se dovessi studiare e non raggiungere la sufficienza dovrei fare i conti con la mia immagine di perdente.
Lavoro. So di far bene un determinato lavoro. Ciò nonostante lo rifiuto perché temo che quel poco di buono che mi viene riconosciuto non si confermi: cosa faccio se gli altri non riconoscono le mie capacità?
Affettività. In una relazione sentimentale sono più protetto se ho tante ragazze. Se una mi pianta, non cade il mondo e dunque non sto male. Gli adottati spesso giocano in difesa: vogliono evitare un nuovo abbandono. Puntando tutto su un legame esclusivo, se questo dovesse rompersi allora sì sarebbero dolori!
Amici. “Mio figlio non esce mai. Quando gli amici lo chiamano esce ed è contento, ma lui non si propone mai (paura di un no).
Questo comportamento è vincente nel “qui e ora” (il solo spazio temporale in cui spesso vivono i nostri figli), è deleterio, invece, a lungo termine. Non mettendosi mai in gioco non hanno occasione per aumentare la loro autostima, che è destinata a scendere ancora di più.

Perché rompono i legami?

La paura dell’abbandono è sempre in agguato. Quando un legame diventa importante preferiscono romperlo. Quando un amico/ ragazza diventa troppo importante, lo/la mettono da parte. Questa tecnica li preserva dall’essere abbandonati per primi. Si comportano così perché hanno fatto l’esperienza di essere rifiutati, quando ancora non avevano gli strumenti per reagire (chi ti mette al mondo sta al tuo fianco h 24/24!). La paura è un’emozione che c’è, che si può provare fin dalla nascita. Anche se non c’è la memoria visiva, c’è quella uditiva, sensoriale e cinestetica (legata alle percezioni tattili).
La paura della perdita ha la meglio sui benefici legati all’affettività.

Tecniche di comportamento: perché provocano?

Capita che i nostri figli ci provochino affermando che i loro genitori biologici erano migliori di noi o che la vera maternità è quella di sangue. Quando questo capita bisogna far finta di non aver sentito: non bisogna mai rispondere alla provocazione, le loro parole devono entrare in un orecchio e uscire dall’altro. I nostri figli sono innamorati di noi anche se ci rifiutano. Il loro è un io fragile e vulnerabile mascherato da un io forte e aggressivo. Offrono disprezzo a chi dona loro amore: di fronte ad un figlio che dice: “Non ti amo” c’è una sola risposta: “Peccato perché io ti amo!” 
 Noi offriamo ai nostri figli una serie di opportunità; diamo il massimo, non molliamo mai la presa! Ma se la sofferenza è troppo grande, le cose non possono andare bene! E’ la sofferenza che crea il problema non il figlio.  Abbiamo un nemico comune: non è lui che ci fa soffrire, è la sua sofferenza. Apparentemente sembra agire in modo consapevole ( “allora non ci ama davvero?”), invece egli agisce solo per istinto (paura di essere amato, paura di un nuovo abbandono, timore di essere inadeguato).
 Le tecniche comportamentali acquisite nella prima infanzia condizionano il presente dei nostri figli. Quali tecniche hanno usato da piccoli per riuscire a contenere l’ansia, l’angoscia, lo stress, il dolore…? Lo capiamo osservando le loro reazioni da adulti. Di fronte a un forte spavento si paralizzano?, cadono in depressione?, scappano?, aggrediscono? (una modalità, anche se dominante, non esclude le altre).
Mi paralizzo: resto vigile e fingo l’immobilità oppure mi paralizzo e il corpo mi abbandona, lascio il corpo e vado con la mente altrove=mi dissocio (tipico nei casi di violenza sessuale)
Fuggo: es. nel bosco, da una persona, da un lavoro…
Aggredisco: soprattutto quando gli altri cercano di parlare con me per capire la ragione dei miei comportamenti.

Reazioni post-traumatiche da stress: rabbia, pianto, crisi.

Sono situazioni in cui la parte emotiva del cervello ha il sopravvento. Dal momento che vengono meno gli inibitori sociali (legati al controllo), i nostri figli manifestano le loro emozioni in modo scomposto. Quando c’è disordine nelle emozioni (pensiamo a quando uno è sotto gli effetti dell’alcol) la parte razionale del nostro cervello non funziona. E’ del tutto inutile intervenire con raccomandazioni, consigli o divieti (per punizione non farai questo o quello): ogni nostra parola viene interpretata come una minaccia. L’unica cosa che possiamo fare per aiutare i nostri figli è calmarli. Come? Per prima cosa uscire dalla stanza in cui è avvenuto il fattaccio (se loro non vogliono seguirci, usciamo noi oppure usciamo di casa, spiegando perché lo facciamo o usando uno stratagemma: es. comperare le sigarette), diamogli da bere un bicchier d’acqua, abbracciamolo… (quali sono i canali più sensibili per stabilire un contatto con i nostri figli?). Occorre uscire da un ottica educativa: se io genitore non reggo, esco. Non devo pensare che così facendo gliela do vinta. Non bisogna accettare la sfida. Non è importante chi vince! Non siamo in una situazione di normalità!!! 
Aiutami a capire. Sarebbe di grande aiuto spiegare ai nostri figli di aiutarci a capire quando stanno per avere una crisi; ad esempio accordarsi su un segnale e concordare una nostra risposta calmante.
 Nelle relazioni primarie i nostri figli hanno bisogno di sentirsi più forti, non più protetti. Nella normalità i bambini trovano piacere e conforto nell’affidarsi ai genitori. Se invece, come nel caso di molti nostri figli, la dipendenza dal genitore ha comportato situazioni di paura e spavento ecco che dentro di loro suona un campanello d’allarme che li ammonisce, ricordando loro che le posizioni di dipendenza sono pericolose, perché sono quelle che li hanno fatti stare male. Solo se io sono il più forte non ho bisogno dell’altro, così l’altro non mi può deludere. In presenza di disturbi post-traumatici da stress, le relazioni sono condizionate dal bisogno di prevalere sull’altro. La paura di dipendere dall’altro (genitore, compagno, insegnante, allenatore…) obbliga a sentirsi il più forte, a decidere sempre e solo in prima persona.
Cosa fare? Se non è una questione di vita o di morte lasciamolo vincere e se sbaglia non diciamogli mai “te lo avevo detto” . Salviamogli sempre la faccia!

Cose da ricordare:
1.       chi è stato rispettato, rispetta. Chi ha subito la violenza, usa la violenza.
2.       non siamo noi la causa della rabbia e della violenza!
3.       abbiamo un nemico comune: la sua sofferenza
4.       se fuori di casa si comporta bene, vuol dire che ha interiorizzato i nostri valori. Tranquillizziamoci!

Studio e lavoro

Quante volte ci siamo sentiti dire che nostro figlio non si impegna! E’ un fannullone? NO. E’ un fannullone chi si salva in corner, chi si mette a studiare all’ultimo minuto e ce la fa. Chi deve ripetere l’anno non è un fannullone. Ha solo paura di perdere! “Se prendo due perché non mi sono impegnato non è colpa mia. Io posso essere bravissimo (illusione) ma non te l’ho fatto vedere”. Non è un ragazzo a cui non importa nulla. Teme di non farcela e andare a vedere gli farebbe troppo male. Eppure le poche volte in cui studia e prende un bel voto è contento…ma poi dimentica. Non aiuta dirgli “studia di più”,  “non ti faccio più giocare a calcio”, “lo faccio per il tuo bene”. Non colpiamolo con un diretto allo stomaco. Non togliamogli lo sport o l’hobby in cui riesce bene: la sua autostima ha bisogno di essere sostenuta. E, al tempo stesso , non stupiamoci se sarà lui ad interrompere un’attività ricreativa in cui riesce bene: se smette all’improvviso ha paura che finisca il suo successo (abbandona lui per primo per evitare la delusione).
Il lavoro rispetto allo studio dà una soddisfazione immediata. Il lavoro è estremamente utile. Sono stufi di imparare, di stare vicino a chi ne sa di più (genitori, insegnanti, allenatori). Non vedono l’ora di vincere su qualcuno. Gli insuccessi scolastici li hanno convinti di essere meno degli altri, diversi e questo ha messo in secondo piano il beneficio psicologico conseguente alla loro riuscita in un certo settore. Il nostro compito è quello di lavorarli ai fianchi. Valorizzarli, insegnare loro ad usare al meglio le loro carte (meglio se aiutati da uno psicologo). Trovare occasioni in cui possano emergere (es. se un ragazzo cucina bene, invitare gli amici ad assaggiare i suoi piatti; trovargli un ingaggio per preparare un pranzo da conoscenti…), fargli sperimentare più attività…Non stupiamoci se i nostri figli fanno fatica a faticare: da bambini hanno sofferto molto e la loro soglia del dolore è molto bassa, mentre è molto alta la loro irritabilità: sono degli ipersensibili.
Riusciranno nella vita?

Sì, non appena avranno relazioni soddisfacenti e gratificanti sul lavoro e in campo sentimentale.

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