sabato 28 settembre 2013

16 novembre a Milano convegno bis dei figli adottivi

Dopo il successo del primo Meeting nazionale, “Adottivi non si nasce, si diventa!” arriva a Milano il 16 novembre. E questa volta porte aperte a operatori, famiglie, cittadini.
Sarà un convegno aperto a tutti i milanesi e non solo, alle famiglie adottive, agli operatori sociali e ai professionisti che si occupano di adozioni.
Sabato 16 novembre a Milano i partecipanti al primo meeting nazionale svoltosi a fine giugno a Bologna tornano insieme a psicologi e esperti per ‘restituire’ a tutti i risultati:  un centinaio di adottivi – accolti con l’adozione nazionale o internazionale – per la prima volta si sono confrontati, senza la mediazione di familiari o esperti, sulle loro origini, sull’identità etnica, sul loro percorso personale. A Milano sarà possibile ascoltare il frutto di queste riflessioni, strumento utile a genitori, figli, operatori per comprendere ancora più a fondo il percorso adottivo che dura tutta la vita.
A breve saranno resi noti su questo sito e  sulla pagina Facebook di CIAI la sede del convegno e il programma dettagliato della giornata.


martedì 9 luglio 2013

L'isola che c'è

Segnaliamo un interessante progetto ideato e realizzato dalle associazioni Afaiv di Arcisate e L' Albero di Varese.
Si tratta di un percorso (quattro incontri da settembre a novembre) rivolto ai ragazzi preadolescenti (dagli 11 ai 14 anni) con il coinvolgimento dei genitori http://www.spazioadozione.org/doc/AMA_programma_isola.pdf

Il percorso è gratuito e sarà sicuramente un'occasione di sostegno e confronto per le famiglie e i ragazzi che si accingono ad affrontare il periodo adolescenziale.
E' necessaria l'iscrizione, da effettuarsi possibilmente entro la fine di agosto, inviando una mail a info@afaiv.it o lasciando un messaggio allo 0332-475333

Ricordiamo che Afaiv é membro fondatore del CARE -Coordinamento delle Associazioni Familiari e Adottive in Rete- www.coordinamentocare.org

mercoledì 3 luglio 2013

Meeting di Bologna: tanti hanno risentito il bisogno di esternare i loro sentimenti pubblicamente proprio perché certi che le loro parole venivano recepite da orecchie "che sanno".

Sono partita per Bologna venerdì mattina presto, volevo abbinare il meeting con una visita alla città peraltro incantevole nella sua ricchezza artistica e storica. Ho pranzato con un ragazzo conosciuto sulla pagina facebook dell'evento e dai dialoghi abbiamo scoperto di avere tantissime cose in comune (mestiere, origini, età). La sua storia è oltre tutto di particolare interesse perché non solo è figlio adottivo, è pure padre adottivo di una bimba di 2 anni (non era un caso isolato fra i partecipanti). Durante l'incontro ufficiale abbiamo poi conosciuto un altro ragazzo con alle spalle un passato, come tutti gli iscritti, fuori dalle righe. Dal confronto delle nostre esperienze è emersa una molteplicità di attitudini verso l'adozione, la ricerca delle origini, l'integrazione, a volte diametralmente opposte. Per fare un esempio, con il primo ragazzo condivido il completo disinteresse verso il paese d'origine, che ci sembra tanto alieno sotto tutti i punti di vista. Il secondo ragazzo, invece, mantiene tuttora contatti con il suo padre biologico che è riuscito a ritrovare dopo varie ricerche, e sta tuttora cercando le sue sorelle, adottate pure loro. 
Mi soffermo sul momento più significativo della giornata, che è stato il workshop, a cui erano state dedicate un paio di ore (troppo poche secondo noi protagonisti). In base alla preferenza espressa fra tre diverse tematiche (quanto l'adozione ci condiziona nella nostra vita, la ricerca delle origini/genitori biologici, identità etnica) siamo stati divisi in gruppi, dove a turno ci siamo presentati. Sembrava una classica riunione di un qualsiasi gruppo di auto-aiuto, coordinata da una psicologa. Seduti in cerchio, giovani e meno giovani hanno colto l'occasione per esternare le loro difficoltà, incitamenti e altre riflessioni, anche di natura molto personale, spesso dolorose e complesse. Io ho voluto riallacciarmi a quanto esposto da un ragazzo, con cui sono tuttora in contatto, sul tema dell'abbandono. Penso che nella costellazione di problematiche legate all'adozione, l'abbandono sia quello con i risvolti più traumatici. Ho recentemente concluso un ciclo psicoterapico, da cui ho avuto enormi benefici in termini di equilibrio e accettazione di me stessa, molto focalizzato sul momento di quel distacco che è nel contempo morte e rinascita. Ho trasmesso del materiale su questa specifica terapia a quel ragazzo con cui sento di condividere uno stesso percorso di sofferenze.
Correva un'energia incredibile in quel locale: tanti hanno risentito il bisogno di esternare i loro sentimenti pubblicamente proprio perché certi che le loro parole venivano recepite da orecchie "che sanno".
Sono stata pure avvicinata dal responsabile di un'associazione che promuove il riallacciamento con il paese d'origine, organizzando incontri, viaggi, aiuto alla ricerca dei parenti. Spero di poter approfondire le implicazioni del mio essere adottata anche con loro, pur non nutrendo, come detto, alcun interesse per il mio passato familiare/culturale/geografico.
L'aspetto che ritengo più arricchente sul piano personale è sorto dopo il meeting, vale a dire nelle relazioni che ho potuto instaurare con alcune persone con le quali ho sentito una corrente speciale, una comprensione oltre il verbo. Sul piano collettivo, sono convinta che simili iniziative abbiano il grande pregio di far cadere quello che per tanti adottivi (e non) resta un tabù. Credo infatti che un fenomeno debba diventare banale a livello sociale perché possa essere serenamente accettato (al pari dei matrimoni gay, dei divorzi, ecc.). Parlare, far conoscere, diffondere sono vie per raggiungere quell'obiettivo.
campionisimona@yahoo.it

mercoledì 22 maggio 2013

Vivre et grandir dans l'adoption (2012)



Cécile Delannoy e Catherinr Vallée sono due mamme adottive con competenze in campo letterario, filosofico e psicopedagogico.
Insieme riflettono sulle difficoltà dei figli adolescenti impegnati nella ricerca della loro identità al di fuori della famiglia. “L’enfant qui avait trouveé sa place dans sa famille découvre en grandissant qu’il ne lui est pas aussi facile de trouver sa place dans notre societé (…) ȇtre adopté n’est pas une ‘chance’ mais peut constituer, à des degés ou des moments variables, un handicap psychosocial” (pag.172). Sono soprattutto le ragazze e i ragazzi che arrivano da lontano (adozioni internazionali) ad incontrare le maggiori difficoltà. La società li riconosce come svizzeri, francesi, italiani, inglesi, ecc. ma gli sguardi che si posano su di loro dicono l’esatto contrario, confermandoli nella loro diversità e inferiorità. Dare voce alle difficoltà dei nostri figli vuol dire riflettere sulla loro condizione esistenziale.
“(…) lorsque des adultes adoptés évoquent entre eux les périodes difficiles de leur adoption (…) ils n’ évoquent pas leur agressivité ou leurs conduites d’ échec; ils évoquent un malaise, le sentiment de se cercher et de ne pas savoir qui ils sont vraiment, le sentiment de n’ ȇtre jamais totalement integers, totalement à leur place, les maladresses de leur entourage, leur besoin de fare un retour sur le passé pour retrouver la trace de leurs origins, au minimum de régler un problème qui les tire vers le passé. C’ est ce constat d’un décalage entre eux et nous (genitori) qui nous a menées sur cette piste de recherce” (pag.168).

Se la teoria dell’attaccamento aiuta ad identificarci con il bambino abbandonato, tradito, ferito, la teoria dell’identità e dell’appartenenza, proposta dalle due autrici, offre nuovi strumenti per capire e sostenere i figli più grandi nella ricerca del loro identità personale e sociale.
Un libro utile in particolare a chi ha scelto l’adozione internazionale e oggi vive di riflesso lo smarrimento e la rabbia dei figli, convinti di vivere una vita falsa, basata sull’illusione e la menzogna e in bilico tra integrazione ed emarginazione sociale.
“Sans doute faudrait-il les aider à garder confiance en eux, à positiver leurs errances, à croire qu’ils peuvent russir mais que cela leur demande de fait plus de temps qu’à d’autres, qu’ils ont devant eux une pluralité des chemins à essayer, des chemins qui n’ont pas été frayés par d’autres, où ils doivent s’inventer eux-mȇmes.
 Quand ils se seront enfin réconciliés avec eux-mȇmes, ils pourront se retourner vers les zones de turbulence, d’errance ou de souffrance pour se demander pourquoi ils ont dû en passer par là et pour commencer à comprendre que toutes les ‘bȇtises’ qu’ils ont pu faire, si elles ne sont pas sans conséquences, recélaient aussi une forme cachée de sen set d’intelligence. Les dèmotivations, la déscolarisation, les vols, la drogue, les fuges, la rue, les errances sentimentales ou sexuelles, les scarifications, les tentatives de suicide, etc. ne sont pas des ‘bȇtises’ gratuites, ce sont parfait des passages obliges, des manières de lutter contre sa souffrance, des ‘moindres maux’ malgré tout! Ils ne savaient pas encore faire autrement.
 Se demander pouquoi, à un certain moment, on n’à plus eu besoin de tout cela, comment on s’en est sorti, c’est justement commencer à prendre conscience de son histoire, commencer le récit de soi” (pag.159).

mercoledì 15 maggio 2013

1° Meeting dei Figli Adottivi Adulti - Bologna, 22 giugno 2013


Adottivi
Non si nasce, si diventa!
22 giugno 2013
 BOLOGNA
Sala Conferenze V.le della Fiera, 8


Il Gruppo Adottivi Adulti CIAI[1] organizza a Bologna il 1° Meeting dei Figli Adottivi Adulti, rivolto esclusivamente ai ragazzi/e dai 18 anni in su.

Noi figli adottivi viviamo una condizione esistenziale che ci accompagna in ogni passo della vita. Questo evento è l’occasione per raccontare e confrontarsi sulle esperienze che ci troviamo ad affrontare e che pur comuni a tutti, nel nostro caso assumono sfumature ancor più variegate.

Per informazioni e iscrizioni:
Centro Studi e Formazione CIAI
Tel. 02.84 84 44 28 –fax. 02. 84.67.715
e-mail: centro studi@ciai.it
www.ciai.it


[1] Gruppo Adottivi Adulti CIAI si è costituito nel 2001 su sollecitazione di alcuni ragazzi adottivi con la finalità di favorire uno spazio di riflessione e dibattito su tematiche inerenti l’adozione partendo dalla propria esperienza

venerdì 26 aprile 2013

David Taransaud, Fantasie di onnipotenza e Sé feriti. Come entrare in sintonia, empatizzare e lavorare con la rabbia degli adolescenti

Proponiamo una sintesi dell’incontro con David Taransaud[1] , organizzato dal CTA (Centro di Terapia dell’Adolescenza) di Milano lo scorso 16 marzo. Il testo è di una nostra mamma  e a lei vanno i nostri ringraziamenti. 
Un ulteriore contributo: "Lavorare su noi stessi" è disponibile sul nostro sito http://www.spazioadozione.org/ alla voce "Testimonianze".

TU PENSI CHE IO SIA CATTIVO
Per i ragazzi traumatizzati il comportamento è una forma di comunicazione ben più incisiva delle parole. Per interagire con loro e aiutarli, occorre far capire che non vogliamo cambiarli, solo conoscerli meglio.
Utilizzando la loro cultura possiamo riuscire a stabilire un contatto. Non ci sono regole fisse, solo indicazioni. E’ importante essere spontanei, creativi e fidarci del nostro istinto.

Quello che non ti uccide..ti fortifica
La cultura del supereroe ci può aiutare a entrare nel mondo interno dell’adolescente problematico. Tutti i ragazzi, quando non si sentono al sicuro o avvertono la propria impotenza, desiderano avere dei superpoteri Non è un caso se durante la seconda guerra mondiale le vendite dei fumetti dei supereroi (Superman è stato creato da due ragazzi ebrei) registrarono un forte incremento. Al termine del conflitto, la vendita iniziò a calare per poi ritornare a salire dopo l’11 settembre. Quando la realtà delude, ci si rifugia nella fantasia; ma può essere pericoloso perché si rischia di disconnettersi dal mondo reale. I bambini che hanno sofferto molto, rifugiandosi in un mondo di fantasia, rischiano di non essere più in grado di ritornare con i piedi per terra: vedono il mondo in modo differente da noi e per aiutarli  siamo noi a dover entrare nel loro mondo.
Proviamo a immaginare di vivere senza mai fidarci di nessuno: ci sentiremmo davvero molto soli. Questo è quanto provano gli adolescenti traumatizzati.
Quando un bambino sopravvive senza amore e cure, seppellisce il proprio bisogno di amore e accudimento e si rifugia in un Sé onnipotente.  Nasconde la parte bisognosa, ferita, e si affida a qualcosa di molto freddo, rigido che gli permette di sopravvivere. Qualcosa che appena vediamo ci fa subito allontanare. Questo serve a proteggere la parte vera, bisognosa.
Con il tempo, il bisogno degli altri diventa qualcosa di cui vergognarsi e l’autosufficienza diventa la nuova sfida. Occorre essere sempre vigili, attenti perché il pericolo può arrivare da ogni parte e non ci si può permettere di essere vulnerabili.

IL KIT DI SOPRAVVIVENZA DELL’ADOLESCENTE FERITO
Gli adolescenti aggressivi sono come i supereroi cattivi: nascondono le loro emozioni dietro ad una maschera che non si tolgono mai.
L’elemento comune a tutti i supereroi è il trauma subito da bambini. Certi diventano supereroi buoni, altri cattivi. Perché? Se durante la sofferenza c'è stato qualcuno accanto a loro, che con il suo calore e amore li ha aiutati a uscire dal loro mondo di fantasia, diventano buoni; gli altri, privati di qualsiasi aiuto, si sono rifugiati in un mondo irreale e lì sono rimasti. E’ quanto succede agli adolescenti antisociali: non hanno avuto nessuno al loro fianco ed hanno imparato ad essere autosufficienti, a contare solo su se stessi.
Spesso questi adolescenti ci appaiono, a causa della loro aggressività, come dei mostri. Se la società decide di vederli così, automaticamente anche loro si vedono in questo modo. Così facendo non riusciamo a cogliere la sofferenza che hanno dentro.
Ma anche dai mostri si può imparare molto.
Immaginiamoci un bambino di 4-5 anni che vive con dei mostri che dovrebbero prendersi cura di lui; Ha due possibilità: o scappa o combatte. Per un piccolo bambino scappare è impossibile. Per andare dove? Chi si occuperà di lui in mezzo alla strada? Combattere è altrettanto impossibile: lui è piccolo e loro sono dei mostri. L’unica soluzione è fingersi morto. Le emozioni sono morte.
La paura provoca l’energia necessaria per fuggire o combattere. Ma se non sei in grado di fare una delle due cose,  la paura ti resta dentro e si traduce in senso d’impotenza (energia necessaria per scappare) e rabbia (energia necessaria per combattere). Queste emozioni, se riattivate, si libereranno in tutta la loro forza distruttiva.
I ragazzi abusati s’identificano spesso in ciò che non riescono a distruggere.
I mostri sono spesso rappresentati con caratteristiche fisiche umane e animali. Ma ciò che prevale in loro è sempre la parte animale. Ecco perché per entrare in contato con un adolescente aggressivo dobbiamo entrare prima in contatto con la sua parte animale. Se si comportano da animali, è perché vogliono farci capire che loro sono stati trattati da animali.

COME RELAZIONARCI CON LORO
Dobbiamo far loro capire che ci interessa conoscerli. Di fronte alla loro aggressività dobbiamo restare calmi, in caso contrario confermiamo l’uso dell’aggressività nelle situazioni di impotenza.
Il primo contatto deve avvenire con il loro Sé onnipotente e questo ci fa sentire impotenti.
Davanti a questa sensazione spiacevole possiamo reagire in diversi modi:
·         Il gendarme: ordina, punisce e ha un atteggiamento aggressivo e dominante.
 Ma cosi rafforziamo la sua convinzione che il mondo è popolato da persone crudeli e che per sopravvivere è necessario il potere e il controllo;
·         l’indifferente: smette di ascoltare e riduce le cure al minimo.
Così facendo, l’adolescente ci vede come insensibili ai suoi bisogni e concentrati solo su noi stessi. Si convince che è meglio tenere nascosto il suo Sé ferito, che resta per lui fonte di vergogna;
·         Il vinto: si sottomette alle richieste dell’adolescente.
In questo modo ci mostriamo troppo fragili per affrontare le sue fantasie di onnipotenza e confermiamo la sua credenza che nessuno sia in grado di aiutarlo ad affrontare il suo caos interiore;
·         Il salvatore: presta attenzione con parole di supporto, offre consigli, aiuto e soluzioni.
L’adolescente ci vede come una figura autoritaria, forte e potente e ciò rinforza il suo senso d’impotenza e conferma la sua strategia di sopravvivenza attraverso il suo Sé onnipotente.
In tutti questi modi non promuoviamo la fiducia, la crescita e la creatività e consolidiamo il ruolo del suo Sé onnipotente, creando un divario maggiore con quello ferito. I conflitti tra l’adolescente e gli altri peggiorano.

Approcci giusti:
·         Scegliere di credere che il loro comportamento è una forma di comunicazione. Questo automaticamente si riflette sul nostro operato: come lo guardiamo, cosa diciamo e come ci muoviamo.
L’adolescente si sentirà ascoltato e questo ci aiuterà a entrare in contatto con lui.
·         L’adolescente ha attivato in noi il suo (ora nostro) “Sé ferito” e questo ci fa star male. Se siamo coscienti di questo, possiamo riconnetterci e continuare a concentrarci sul ragazzo.
Per arrivare a ciò dobbiamo lavorare prima su noi stessi con l’aiuto di qualcuno di cui ci fidiamo.
Dobbiamo dare empatia a noi stessi, alla nostra parte ferita.
Così saremo forti a sufficienza per reagire ai suoi attacchi aggressivi e gli dimostreremo che si può essere, allo stesso tempo, deboli e forti. Se riusciremo a trasmettergli ciò, gli daremo speranza e sarà l’inizio della sua salvezza.

LAVORARE SU NOI STESSI.
Per il lavoro su noi stessi dobbiamo essere coscienti che vi sono tre tipi di adulti.
·         Quelli che ricordano la loro infanzia e adolescenza. Ricordano come si sono sentiti ed hanno empatia per il loro Sé ferito.
Questi adulti (purtroppo sono una minoranza) sanno sempre cosa fare quando sono di fronte agli adolescenti aggressivi.
·         Quelli che hanno dimenticato molti aspetti della loro infanzia e adolescenza.
L’adolescente aggressivo ha attivato in loro dei sentimenti che pensavano di avere dimenticato e questo li fa stare male. Ma se prendono coscienza di questo e ci lavorano, potranno crescere emotivamente. Questi sono la maggioranza degli adulti.
·         Quelli che hanno dimenticato di avere dimenticato.
Sono gli adulti che reagiscono con aggressività e che non capiscono l’adolescente traumatizzato.
Anche per essi è necessario entrare in contatto con le loro parti dolorose dell’infanzia e dell’adolescenza e provare empatia per esse.
L’importante è essere autentici e dobbiamo essere coscienti che di fronte ad un adolescente aggressivo non è sempre facile. Bisogna parlargli di ciò che ci fanno provare, dei nostri sentimenti e per farlo dobbiamo prima conoscerci.
Il ragazzo ci farà provare gli stessi sentimenti che prova lui. E’ importante non attaccarlo o giudicarlo, ma usare empatia. Entrare nei suoi panni, nel suo dolore, ma sapere ciò che noi siamo (vulnerabili e forti assieme). Aiutarlo a esplorare i suoi sentimenti attraverso i nostri. Raccontandogli ciò che ci fa provare con il suo atteggiamento, gli diamo la possibilità di arrivare al suo Io ferito.
Quando sono aggressivi o ci urlano addosso è solo per dirci: “Sii autentico, ti do la possibilità di essere in contatto con me!”.
Il modo in cui decidiamo di interpretare il suo atteggiamento avrà un impatto sul nostro comportamento.
Dobbiamo sempre ricordarci che per un ragazzo traumatizzato l’amore fa male. Riaccende ricordi dolorosi. Tramite l’aggressività può tenerci lontano e proteggere la sua parte ferita.


NEGOZAZIONE DELL’OSTAGGIO
Creare un contatto tra il Sé onnipotente e il Sé vulnerabile.
Se proviamo a entrare in contatto con la parte vulnerabile, ci sarà una reazione aggressiva.
E’ come se la parte onnipotente avesse rapito quella vulnerabile e ogni volta che cerchiamo di avvicinarci all’ostaggio, il rapitore reagisce.
Nella vita reale si farebbe intervenire un negoziatore e noi dobbiamo essere proprio questa figura.

Cercando un contatto con il rapitore (Sé onnipotente) si arriva all’ostaggio (Sé ferito).
Modi per relazionarci con la parte onnipotente:

P                                            A                                            C                                            E
Gioco (Play)                       accettazione                     curiosità                              empatia

E’ utile vedere gli adolescenti come dei bambini piccoli. Di fronte ai loro capricci siamo solitamente comprensivi, empatici ed è ciò che dobbiamo fare anche con i ragazzi aggressivi.
Mantenere i canali di comunicazione sempre aperti. Avere un dialogo creativo.
E’ davvero fondamentale fare capire che siamo INTERESSATI a loro. Un modo concreto per dimostrare ciò è accoglierli evitando di domandargli “Come stai?”, ma piuttosto “Mi fai vedere come ti senti?”.
E’ molto più facile, con questo accorgimento, ottenere da parte loro una risposta autentica. Saranno loro a trovare il modo (canzono, disegni,...) per farcelo vedere.
Anche attraverso le metafore, il ragazzo ci farà capire come si à sentito nel passato.
Con le attività artistiche si aggirano le parole che a volte possono essere ingannevoli. Ad esempio la rabbia può avere molte espressioni, ma con la loro rappresentazione si capisce meglio cosa vogliono dirci.
Più riusciamo a fare interagire la parte onnipotente con la parte ferita, più il ragazzo guarisce.
Possiamo usare, come strumento operativo, delle scatole: ci assomigliano perché, come noi, hanno un dentro e un fuori; e dentro di noi, nascoste dalla vista altrui, tutti noi teniamo le cose (sentimenti, segreti, emozioni, ecc.) che vogliamo proteggere.
Gli diamo una scatola e gli diciamo che può farne ciò che vuole. Poi osserviamo come la decora, cosa ci mette all’interno. Parlando della parte esterna si riesce ad arrivare al contenuto della scatola. Ciò che conterrà sarà quello che vuole proteggere.
L’esempio delle scatole è riconducibile al cosiddetto “fenomeno del mondo rotondo”: se si continua a volare verso nord automaticamente si arriva ad un certo punto a sud. Se si parla al Sé onnipotente, automaticamente si arriva al Sé ferito.

In conclusione tutti noi vorremmo essere dei supereroi dotati di superpoteri, ma la realtà è diversa.
Non dimentichiamoci, però, che per essere noi stessi, per essere spontanei, noi dobbiamo già essere dei supereroi.



[1] David Taransaud è consigliere psicoterapeutico (psychotherapeutic counsellor) per adolescenti; autore, presentatore e tutor in Arteterapia ed educazione. Ha maturato una lunga esperienza lavorando nei quartieri più poveri di Londra, a contatto con ragazzi adolescenti e giovani etichettati come asociali, a causa dei gravi traumi subiti nella prima infanzia.
Recentemente ha soggiornato nel nord dell’Uganda dove ha ideato e organizzato un servizio di Arteterapia presso un orfanotrofio per ex bambini soldato e giovani vittime di conflitti e traumi. Ha inoltre realizzato un film che può essere visto su You Tube: http://www.youtube.com/watch?v=_AmdJNE2XLA (Video title: Kitgum's Orphans - Invisible Wounds).

lunedì 28 gennaio 2013

Il linguaggio segreto dei fiori


Segnaliamo il romanzo di Vanessa Diffenbaugh[1], Il linguaggio segreto dei fiori, Garzanti, 2011. É una lettura intensa, stimolante e utile per capire, o meglio “tradurre”, il linguaggio di alcuni nostri figli. Protagonista Victoria, una ragazza abbandonata in culla, che trascorre l’ infanzia e l’ adolescenza sballottata da una famiglia all’ altra, accumulando una serie ininterrotta di rifiuti che ne aumentano la rabbia, il rancore, la vergogna e la solitudine. Al suo fianco, dalla nascita fino ai diciotto anni, un’ assistente sociale sfiduciata e inacidita dai ripetuti insuccessi della giovane; un’ operatrice incapace di capire, convinta che tutte le difficoltà della ragazza dipendano dalla sua scarsa volontà.

“Devi volerlo”, continuò. “Io ho fatto tutto quello che potevo. Ma la verità è che sei tu che devi volerlo”.
“Volere che cosa?” mi chiedevo ogni volta che mi diceva quella frase. In quel momento volevo solo che lei se ne andasse…p.28.

All’età di nove anni nella vita di Victoria entra Elisabeth: una nuova mamma affidataria, una “nemica” da tenere lontana, da sfidare attraverso continue provocazioni, in attesa del crollo nervoso e della sua resa. Ma Elisabeth è una donna che ha sofferto e sa riconoscere il dolore:

“A mia madre non piacevo nemmeno io” (…) “Almeno questo ci accomuna” (…) “Mia madre si è ammalata per colpa mia…Nessuno me lo nascose. I miei genitori non volevano un’ altra figlia femmina. Tutti pensavano che le ragazze non avessero papille gustative capaci di distinguere l’ uva matura (i genitori sono viticoltori). Ma io ho dimostrato che si sbagliavano” (…) “Credo che anche tu possa dimostrare che si sbagliano, Victoria. Il tuo comportamento è una scelta, non è ciò che sei”. Se Elisabeth ne era davvero convinta, pensai, il futuro le avrebbe riservato solo delusioni p.54-55).

Elisabeth sarà la prima e unica vera mamma di Victoria. É lei che insegnerà alla figlia il linguaggio segreto dei fiori[2], la possibilità di comunicare i propri stati d’ animo, le proprie emozioni attraverso un linguaggio desueto, oscuro e misterioso. Victoria ha, infatti, bisogno di un "codice" per riuscire ad esprimersi e a entrare in contatto con gli altri. Con le parole non riesce, forse perché troppo chiare e impegnative. Grazie ad Elisabeth, Victoria capirà, ormai maggiorenne e senza fissa dimora, quale strada intraprendere per diventare adulta:

In quel preciso istante mi tornarono in mente le parole di Meredith (la sua assistente sociale), quelle che mi aveva detto alla Casa dell’ accoglienza e decine di volte prima di allora: “Devi volerlo”. Dovevo essere una figlia, una sorella, un’ amica, un’ allieva, mi aveva ripetuto infinite volte. Ma io non volevo essere nessuna di quelle cose e né le promesse di Meredith né le sue minacce o i tentativi di corrompermi avevano  influito sulle mie convinzioni. Adesso, all’ improvviso, sapevo che cose volevo essere: una fioraia p.67.


Un genitore ci scrive

Grazie per l'indicazione del libro "Il linguaggio segreto dei fiori". L'ho preso e letto nelle vacanze. L'ho dato anche a mio figlio per il suo compleanno, senza commenti, vedremo. Naturalmente è un romanzo e la nostra cara Victoria guida la macchina per lavoro senza fare la patente, sa essere razionale con i soldi, sul lavoro - persino con doti imprenditoriali di eccellenza - problemi con cui, invece, noi siamo spesso confrontati. Ma il libro mi pare prezioso perché esprime bene il modo di pensare e agire di Victoria, la radicalità di un sì o di un no. L'incapacità di relazioni "normali", l' impossibilità di "raggiungerla" anche quando ha male, fa male o si fa male; la sua incapacità di cercare o ricevere aiuto e la sua "cattiveria" verso chi si avvicina troppo a lei, al punto da farla sentire minacciata e minacciare, a sua volta,  le persone più care. Poter leggere tutto questo, così efficacemente in un romanzo, contribuisce a divulgare la cultura dell'adozione. Vedo che i siti che ne parlano (e il ‘battage’ mediatico, siti, ecc.) si concentrano sul linguaggio dei fiori, che per me è assai marginale a fronte dello spessore dato ai personaggi e alla problematica di Victoria. A mio avviso quello del linguaggio dei fiori è un espediente geniale dell'autrice per dire quanto leggiamo nei testi sull'adozione: cioè che  il linguaggio degli adottati va in qualche modo TRADOTTO, più ancora che interpretato; e qui anche il linguaggio dei fiori è un linguaggio da tradurre .
Anche la sua "vocazione" per il linguaggio dei fiori, mi pare una bella metafora per evidenziare la preziosa ricchezza interiore di questi ragazzi sopravvissuti a mille difficoltà; "vocazione" che spesso non riesce però a trasformarsi in un progetto. É un libro che mi fa molto riflettere e capire le difficoltà che incontro a parlare con mio figlio  e le sue difficoltà  a farsi aiutare.
Non è per ora "raggiungibile", come lo è stata Victoria per tanti anni. Questa è la difficoltà immane che noi incontriamo: vorremo parlare con lui di un progetto che gli permetta di reinserirsi nella società, ma non vogliamo essere come la sua perfida assistente sociale!
Il comportamento delle figure positive che ruotano intorno a Victoria sono interessanti ma quasi irreali nel loro rispetto della distanza che Victoria tiene nei loro confronti. Alla fine lei sarà grata a loro proprio per questo. Purtroppo però nella nostra  realtà, spesso questa situazione porta persone come Victoria, all'emarginazione, all'autodistruzione, al carcere.














[1]
VANESSA DIFFENBAUGH è nata nel 1978 a San Francisco e cresciuta a Chico, in California. Si è laureata all'Università di Stanford in Scrittura Creativa e in Pedagogia. Successivamente ha insegnato arte e scrittura ai giovani in comunità disagiate. Lavora da anni in associazioni no-profit accogliendo e aiutando a inserirsi nella società giovani "problematici", senzatetto e bambini in affido. E' fondatrice di Camelia Network, una onlus che assiste i ragazzi durante tutti i delicati passaggi dell'affidamento. Il linguaggio segreto dei fiori è il suo primo romanzo ed è stato pubblicato in Italia dalla casa editrice Garzanti. E' una storia di sofferenza e riscatto, narrata con estrema delicatezza, ispirata alle esperienze dell'autrice tra i bambini e i ragazzi delle comunità di accoglienza. L'autrice ha tratto ispirazione anche dalla sua diretta esperienza come madre adottiva. Pubblicato in contemporanea in tutto il mondo, il libro è immediatamente diventato un fenomeno editoriale. Conteso da editori in tutti i continenti, dopo aste agguerrite e cifre da record, è stato tradotto in più di trenta paesi. Uscito in contemporanea mondiale nel maggio 2011, racconta una storia di coraggio e di speranza, di abbandono e di incredibile sete di vita, mostrandoci la forza immensa dell'amore più vero, quello imperfetto e senza radici, che dà senza pretendere nulla in cambio. 
Vanessa Diffenbaugh è inoltre curatrice di una rubrica mensile sull'educazione dei figli nel giornale locale di Sacramento, città in cui ha vissuto a lungo prima di trasferirsi con il marito e i tre figli a Cambridge nel Massachusetts, dove vive attualmente.
http://www.festivaldelleletterature.it/it/artisti/116/vanessa-diffenbaugh.html

[2] Secondo una tradizione molto in voga nei secoli passati, oggi quasi completamente dimenticata, ad ogni fiore era abbinato uno o più significati (ad esempio: il papavero era il simbolo dell’ immaginazione e della stravaganza; il cardo della misantropia e dell’austerità; la dalia della dignità; la lavanda della diffidenza; il musco (o muschio) dell’ amore materno, ecc.