Breganzona, martedì 22 ottobre 2020, sala multiuso scuole elementari
"La bellezza mi ha salvato, l'adozione mi ha donato il sorriso e l'amore
Incontro con Manuel Bragonzi, fondatore e presidente ANFAD e autore, insieme a Marcello Foa, del libro "Il bambino invisibile, una straordinaria storia vera" (2012)
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Trascrizione audio
Vorrei iniziare con leggervi un testo che ho scritto
sull’adozione.
"Che cos’è l’adozione?
L’adozione è bellissima. L’adozione è il sorriso di tuo figlio piccolo che ti
guarda con gli occhi pieni di affetto, quello vero, sincero, che non ha
maschere. L’adozione è l’abbraccio di tuo figlio, che ti stringe con tutto
l’amore che può dare il suo piccolo cuoricino, e tu genitore ti sciogli; tu
mamma ti commuovi davanti a tanto amore infinito e libero. L’adozione è quando
tuo figlio ti guarda e ti chiede:“Ma tu ci sarai per sempre?” e non potrai far altro
che stringerlo a te con tutto l’amore che puoi dargli, per fargli capire che ci
sarai sempre, per sempre. L’adozione è amore; l’adozione è un per sempre. L’adozione
è quando tuo figlio è più grande e i
suoi ricordi si fanno coscienti, presenti, forti. L’adozione è quando tuo
figlio soffre di giorno, spaccando tutto ciò che incontra, immaginando di dare
fuoco al mondo per tutto il dolore che sente dentro il suo corpo e sembra che
il suo cuore si frantumi in mille pezzi. L’adozione è quando tuo figlio soffre
di notte, piangendo in silenzio sotto le coperte, ricordando i soprusi, le
violenze subite, ricordando la mamma, ricordando l’abbandono, ricordando la
morte. L’adozione è la rabbia di tuo figlio che non riesce a placarsi e cerca
ovunque un qualcosa che possa farlo stare calmo, sereno; che cerca ovunque un
qualcosa che gli faccia passare il dolore. L’adozione è il genitore che vede
tutto e si sente impotente. E’ la mamma
che vorrebbe abbracciare ancora il figlio ma viene allontanata: è grande.
L’adozione è vedere la sofferenza di tuo
figlio e non sapere come rimettere insieme i mille pezzi del suo cuore.
L’adozione è il genitore che di notte piange, in silenzio, sotto le coperte.
Non c’è cosa più straziante che vedere e sentire il dolore di tuoi figlio e di
essere lì a guardarlo senza sapere cosa fare. L’adozione è dolore, l’adozione è
fatica del cuore. L’adozione è sofferenza, l’adozione è amore. Tutte le cose
belle costano, l’adozione è di una bellezza così infinita che anche il suo
prezzo a volte è illimitato. Ma il dono che ti porta è un amore così grande che
ha al suo interno tutto: dolore, sofferenza, fatica, sorriso, gioia e ancora
amore. L’adozione è vita, l’adozione è tutto nel corpo di tuo figlio;
l’adozione è tutto nel corpo dei genitori.”
La mia storia parte dal primo ricordo che ho: ricordi di mia mamma, Isabèl, che è stata uccisa da quello che poi ho scoperto essere mio nonno, quando era accanto a me. Avevo tre anni. Per cui l’unico ricordo che ho di mia mamma è proprio questo momento.
Dopo il suo assassinio mi tenne con sé mio
nonno, questo anziano, il quale per due anni mi fece di tutto. Mi svegliava
frustandomi dalla mattina alla sera, mi teneva chiuso in casa, mi picchiava, mi
faceva di ogni; e anche quelli del villaggio, perché io vivevo in un villaggio
del Cile degli anni ottanta in pieno regime Pinochet, e questo villaggio
subiva ovviamente quella situazione e quindi i contadini - era un villaggio di campesinos - bevevano dalla mattina alla
sera per sopportare la fame. I contadini guadagnavano trenta pesos al mese, che
vuol dire 60 euro al mese, per cui mangiavano pochissimo e per sopportare la
fame bevevano. Ubriachi dalla mattina alla sera, per cui la violenza era all’ordine
del giorno e io ero il bambino di nessuno, il figlio di nessuno, per cui non
voluto dai ragazzi, dai bambini, dagli adulti.
Ogni volta che cercavo un
approccio con qualcun altro subivo delle violenze. Quindi dopo due anni,
stanco, avevo cinque anni, bruciai la casa: diedi fuoco alla sua casa, del
veccho, che viveva con sua moglie e con un’altra donna, che probabilmente era
mia zia. Dando fuoco alla sua casa in modo fortuito, perché io non volevo dare
fuoco, stavo giocando solamente con dei fiammiferi, una sera, quando non so come
mai nella casa del vecchietto si erano messi a fare una festa: tutti ubriachi
naturalmente ed io, chiuso in una stanza, mi misi a giocare con i fiammiferi e i
panni stesi e da lì prese fuoco tutta la casa e da lì, dalla casa, prese fuoco tutto il villaggio. Diedi fuoco praticamente a
tutto il villaggio. Quindi loro ubriachi, ancora in festa, non mi notarono quando scappai e fu la scena
più bella, forse la prima scena più bella che abbia mai vista, perché da
lontano, dietro i cespugli, osservavo di notte il fuoco del villaggio e per la
prima volta vidi delle persone che, insieme, stavano facendo qualcosa: spegnere
l’incendio. Quindi c’erano i ricchi proprietari terrieri e i contadini che cercavano
di spegnere l’incendio insieme: dal pozzo al villaggio per spegnere il fuoco.
Ed era un’immagine bellissima perché per la prima volta ho visto qualcuno che,
insieme, faceva qualcosa.
Decisi in quel momento di andare a vivere nel bosco. Perché ogni tanto ci andavo quando riuscivo a scappare da quella casa ed era un luogo che mi piaceva tantissimo, perché c’erano tante meraviglie, dal profumo degli eucalipti, agli uccellini, ai ruscelli, al verde. La natura mi piaceva tantissimo. Per cui in modo istintivo, in quel momento, decisi di andare a vivere nel bosco e a cinque anni scelsi l’albero più bello: un albero gigantesco e lo scelsi come casa e iniziò la mia avventura non tanto sulla sopravvivenza ma per capire chi ero io. Ho iniziato fin da piccolo, in modo incosciente prima, perché ero piccolissimo, a cercare di capire chi ero io nel mondo, in quella realtà. Quello che mi accorgevo da subito era che ero affascinato dalla bellezza della natura, una cosa che io non avevo scoperto vivendo al villaggio. Per me il villaggio era il male assoluto. Per me gli uomini erano la mente cattiva, il male, anche loro, e lì invece vedevo la bellezza, vedevo la naturalezza delle cose: i passeri che cantavano allegri, tutti gli animali che c’erano nel bosco, le piante, gli alberi. Ero affascinato da tutto; avevo conosciuto la bellezza finalmente. Per cui, come una persona esterna che guarda il mondo davanti a sé, ho iniziato ad avvicinarmi sempre di più, appunto come uno spettatore, inizialmente. Poi, con il passare del tempo, con il passare dei mesi, pian piano mi immergevo sempre di più nella natura. Ero diventato sempre più selvaggio e domandandomi, proprio perché io ricordo le domande che mi facevo: “Ma io chi sono?”, non volevo essere come gli altri, quelli del villaggio, però mi accorgevo che non ero come le cose che vedevo davanti a me. Non ero un albero, non ero un uccellino; “Ma io chi sono, quindi?”. E questo percorso mi ha aiutato a capire, sempre di più che ero parte integrante di quella natura. E mi ricordo benissimo, ormai ero grandicello, otto anni, il momento in cui capii, perché mi guardai le gambe ed i piedi e talmente erano sporchi che non riuscivo a capire il confine tra i piedi e la terra e la mia carnagione era molto più scura di adesso, ero abbronzato quindi sembravo dello stesso colore degli alberi. In quel momento mi sono sentito proprio parte integrante della natura, cioè io ero natura e quindi il ragionamento fu facile, semplice. Mi dissi proprio che, se io ero parte della natura, se ero parte integrante di questa bellezza, ero bello anch’io. Era una conseguenza facile, e quindi se ero bello anch’io, che evidentemente sono un uomo, forse la possibilità di bellezza c’è anche per gli altri, anche per quelli del villaggio, anche per le persone che vivono nel mondo. E questa speranza di bellezza mi ha cambiato totalmente la visione di me stesso e di tutta la vita. Sapere che comunque la bellezza esiste, che io ne faccio parte e che gli uomini ne fanno parte, ti dà una speranza fortissima. Per cui tutto quel dolore che io avevo provato, il ricordo di mia mamma, le violenze subite che ogni giorno mi accompagnavano nei ricordi, avevano tutto un altro sapore. C’erano, esistevano, non è che sparivano, però davanti alla bellezza erano niente. Il dolore passa, le ferite della cintura sulla mia pelle sono passate, c’erano le cicatrici, però la bellezza rimaneva. Questa consapevolezza mi ha dato tanto, tantissimo.
E proprio quando sono arrivato a questa consapevolezza vidi due carabinieri, i carabineros, che erano arrivati a cercarmi e trovandomi mi portarono davanti a quello che doveva essere mio nonno, chiedendo se ero io. Ecco, mi sono detto, allora è stato lui, perché mi ricordavo che il giorno prima avevo visto questo vecchietto andare alla cabina telefonica, l’unica che c’era nel villaggio e che non veniva mai utilizzata perché non c’era un legame con l’esterno, e ebbi la percezione, in quel momento, che lui stesse chiamando per me. Non so come mai, fatto sta che il giorno dopo arrivarono i carabinieri e portandomi da lui, una volta che fu confermato che ero io il bambino, mi portarono via. Io felicissimo perché per la prima volta vedevo delle uniformi. Ero stupito: per la prima volta ho visto un furgoncino, una macchina che non avevo mai visto in vita mia e addirittura mi avevano messo davanti! Quindi gioia infinita. Io ero così, vivevo le novità, tutto ciò che era nuovo, con gli occhi della bellezza, costantemente. Mi portano all’inizio in un centro militare e dopo una decina di giorni mi portarono in orfanatrofio. avevo otto anni. Hanno cercato di curarmi come potevano, perché ero pieno di malattie parassitarie, dalla tigna ai vermi, avevo anche le verruche; ero veramente conciato male e non so quanto tempo potevo resistere in quelle condizioni nel bosco.
E quindi è arrivato tutto nel momento giusto, è arrivata questa cattura quando ero consapevole di me stesso, quando probabilmente anche la mia resistenza fisica non poteva andare oltre. Sembravo un bambino di quattro anni, non di otto anni. Dell' orfanatrofio in realtà non ricordo molto e dopo sei mesi, una notte, sognai due persone che venivano a prendermi. Per cui al mattino mi alzai velocemente, andai a fare la doccia, misi i vestiti più belli che avevo, e non erano così belli, ed ero pronto ad attendere queste due persone che sarebbero venute a prendermi. Quindi, quando arrivò la suora a chiamarmi, le dissi di non dirmi niente perché sapevo già tutto. Quindi mi portò nella stanza della madre superiora e vidi queste persone, un uomo e una donna. La madre mi disse, mi informò che arrivavano da lontano, da un paese lontanissimo e che erano arrivati lì perché volevano diventare i miei nuovi genitori e mi chiese se li volevo.
“Ma tu li vuoi?”. "Sì", dissi: un sì in un tono molto basso ma deciso. Io li avevo guardati, perché noi siamo abituati a guardare le persone negli occhi e a capire nella loro anima come erano fatti. Perché, abituati alla violenza, capiamo chi è violento e io li avevo visti ed erano delle belle persone; gli occhi agitatissimi perché erano tesissimi e aspettavano la mia risposta. Erano tesi, tesissimi e, appena dissi di sì, si alzarono in una frazione di secondo e mi abbracciarono e mi strinsero e in quella stretta, in quell’abbraccio così forte, in quella passione che ci hanno messo, anche nel baciarmi, nel toccarmi, nell’accarezzarmi, e lì, in quel momento, ho capito di essere figlio, che era il desiderio più grande che avevo, ovviamente, in tutti quegli anni di solitudine.
Da quel
giorno io ero figlio e iniziò un’avventura di conoscenza con i miei genitori
perché noi, io ero grandicello, otto anni, anche se ero libero nel rapporto con
loro fin da subito, il rapporto doveva essere costruito nel tempo. Nessuno
conosceva la mia storia, come ero cresciuto in quei tre anni prima di
conoscerli, per cui anche loro non sapevano niente di me: io ero un selvaggio,
non ero abituato a nessun tipo di imposizione, ero libero, facevo quello che mi
passava per la testa, correvo a destra e a sinistra, per cui anche loro
dovevano cercare di capire chi fossi. Mi ricordo, loro lo hanno raccontato
anche in un’intervista, che eravamo seduti su una lastra, ai bordi di una
vasca, una fontana, a Santiago, e c’erano dei pesci e mio padre per parlare con
me disse ha detto “Ma va che bei pesci
che ci sono nella fontana” e io sono entrato e ne ho preso uno al volo. Lui
schifato, e anche mia madre, mi ha detto di ributtarlo in acqua e io ci rimasi
male: “Ma scusa, se ti piace perché non
prenderli?”. Era una continua contraddizione della società. Perché io non
ero abituato a stare nella società, ero abituato a fare quello che la bellezza
mi portava a fare e, quindi, se ti piace qualcosa la prendi.
Rimanemmo poco in
Cile. Io all’inizio mi ricordo il primo litigio che feci con i miei genitori
perché io volevo stare nell’acqua del torrente e loro mi dicevano le solite
cose, le menate:” Ti bagni troppo”,
eccetera. “Ma scusa cosa vuoi da me? Adesso
sono in acqua, mi sto divertendo!”. Per cui era iniziato il primo rapporto
di litigio. Io non abituato, stavo in silenzio con la faccia scura. Ma la cosa bella è che c’era in
noi, comunque, un amore palese. Si vedeva che c’era un attaccamento naturale
tra noi.
Arrivammo all’aeroporto e mio padre mi disse: “ Questo è l’aereo più grande del mondo, è un
jambo”, in Cile “mais grande”. Mi
stavo accorgendo che stavo andando via dal Cile, da quella terra che io ho
conquistato con il mio sangue - io sono
caduto anche da un albero, lì sono altri anche 20-25 metri, e io ero su che
giocavo da un albero all’altro rincorrendo i passeri e in uno di questi salti ho mancato
un ramo e, cadendo, mi sono spaccato un braccio - per cui veramente con il
sangue mi sono conquistato quella vita lì in Cile, quella terra. Ora stavo
andando via e il loro dire che in Italia è
più bello. No!!! Il Cile era più importante e quindi mi ritrovo sul sedile
dell’aereo e sorvolavo le Ande in braccio a mia mamma e quindi guardavo le
Ande, le montagne che io vedevo da lontano nei campi, quei vulcani innevati, e
mi veniva il magone perché, cavolo, stavo venendo via dalla mia terra. Ma, come
ho detto prima, ero in braccio a mia mamma e quindi guardavo giù, guardavo lei,
guardavo giù, guardavo lei e adesso ero in braccio a mia mamma e allora mi sono
rilassato.
Arrivati in Italia, tutto era diverso. Mio padre mi portò alla
macchina: ero felicissimo! Mio papà
aveva la macchina, “tiene carro!” e
quindi ero orgoglioso: una Ritmo 60 super; le ricordo tutte: dopo aveva preso una Regata 100
super a iniezione elettronica . Ero contentissimo. Tutte queste novità: il giro
nelle case diverse, tantissime macchine e, come ho detto prima, ero
felicissimo, accoglievo ogni cosa che vedevo. Non è che ero spaventato, perché
arrivavo dal nulla: ero felice perché vedevo delle novità e queste novità mi
piacevano. Arrivati a casa mio papà accese la televisione e io mi sono
spaventato. Era la prima volta che vedevo la televisione per cui, come nei
films i selvaggi, sono andato anch’io dietro per vedere da dove venivano
quelle immagini.
La prima cosa che feci è stata costruirmi una fionda perché io
con la fionda mi procuravo da mangiare, mangiavo i passeri. Quindi chiesi a mia
mamma dov’erano i coltelli, anzi prima le chiesi un elastico, un po’ di stoffa
e poi le ho chiesto ”Dove sono i coltelli?”. “Di là, in cucina” e quindi, senza che lei riuscisse a fermarmi, sono
andato subito a prendere un coltello e sono uscito di casa. Mi sono arrampicato
su un albero, scelsi il ramo più bello e mi costruii la fionda in un batti
baleno. Mio padre mi vedeva dal balcone, per strada ad ammazzare tutti i
piccioni e scese a correndomi dietro a
spiegarmi che in Italia non si poteva fare una cosa del genere. Io ovviamente
non sapevo ancora nulla, e dopo un po’
di tempo, non so se due settimane o giù di lì, a tavola, a cena, dissi proprio così: “Sai che mio nonno ha ammazzato mia mamma”. C’è stato questo silenzio (lo stesso registrato in sala) e quindi hanno
iniziato ad indagare, a farmi delle domande. Il giorno dopo ero dallo
psicologo. Però sono stati comunque tranquillizzati, dicendo che stranamente
sono sano di mente e non so come mai ero riuscito a fare quello che vi ho
detto: a prendere atto della bellezza da solo, a costruirmi come una specie di filtro, una ragnatela che prendeva
il bello, lasciando il brutto fuori. Per cui hanno detto ai miei
genitori di stare sereni, che questa cosa stava funzionando.
Mi portarono a scuola perché a quei tempi non c’era la maternità per l’adozione e i miei genitori dovettero andare al lavoro dopo circa due settimane, più o meno. Anche la scuola è stata un bell’ impatto, anche se quello che mi sembrava più strano erano proprio i bambini, che erano completamente diversi da me: non la carnagione, ovviamente io ero più scuro come sudamericano, più di oggi perché con la nebbia mi sono scolorito. (Ero diverso) perché allora avevo la tigna, ero rasato a zero, avevo i buchi in testa. E loro mi sembravano stranissimi nell’atteggiamento con la realtà e con la vita, nell’atteggiamento tra di loro, nel rapporto che avevano tra di loro e mi sembrava strano che non capissero l’importanza di avere qualcuno accanto, di avere un’amicizia. Io non ne avevo. Quando venivano i genitori a prenderli facevano sempre i capricci, li trattavano male, e anche lì io non capivo come mai. Hanno il dono dei genitori e li trattano in questo modo, ma perché? E quindi non capivo, non riuscivo proprio a comprenderli, sembrava proprio che avessero delle priorità diverse dalle mie e poi piangevano per ogni cosa, si facevano male e piangevano, perdevano un gioco e piangevano, un altro spingeva e piangeva. Erano per me dei bambini stupidi. Però io ho dovuto fare una scelta. Vedendoli così diversi, io cosa potevo fare? O annullavo un po’ quello che ero io, mi nascondevo per stare con loro, oppure rimanevo me stesso e stavo da solo. E siccome di stare da solo non avevo più voglia ho iniziato a mettermi una maschera, a nascondere quello che ero io realmente; a stare più vicino a come si comportavano loro, cercando di essere anche il più bravo nelle attività sportive perché quelle mi venivano facili. Ero sempre stato allenato per cui nel calcio, nella corsa, in qualsiasi tipo di gioco, dovevo essere il più bravo. Essere il più bravo voleva dire essere riconosciuti, essere guardati: perché essere guardati è una delle cose che ci preme di più. E questa maschera io ve lo dico che è una delle cose più importanti del mio percorso qui in Italia. Perché poi io andavo abbastanza bene a scuola perché mia mamma era un’insegnante di lettere, per cui mi seguiva sempre: ho imparato l’italiano in frettissima, a scrivere velocemente e lei mi ha proprio insegnato tantissimo; aveva le qualità e a me piaceva imparare: ero una spugna, un cervello vuoto che doveva essere riempito e così mi piaceva tantissimo e così le elementari e le medie. Anche lì, alle medie, la maschera diventava più forte. Stavo sempre di più vicino ai miei compagni, cercavo di essere quello più spiritoso, quello più simpatico, l’amico del gruppo che tutti volevano e anche nello sport ho annoiato un po’ tutti perché io vincevo sempre e a fine anno c’erano sempre le gare della scuola, per cui le medaglie tutte a me. Arrivato al liceo diventava tutto più difficile perché lì da adolescente si studiano anche i poeti più importanti, ci si fanno le domande. Chi legge Leopardi non può non farsi le domande e quelle domande erano le mie.
Per
cui: " Chi ero io dietro a quella maschera?". I miei compagni non mi conoscevano, non
sapevano chi fossi io dietro a quella testa, a quel volto. Ero solamente il
ragazzo semplice e simpatico, vivace, che se lo trattavi male venivi picchiato.
Buono ma con chi era bullo picchiavo: i bulli li picchiavo tutti e difendevo i
più deboli,. Per cui anche i bulli per me erano uno sfogo: picchiare i bulli,
picchiare quelli che si sentivano più grossi.
Io mi svegliavo al mattino con
questo ricordo di mia mamma; quindi ogni mattina ripercorrevo quei metri che ci
avevano portato al vecchietto. Ogni mattina vedevo la morte di mia mamma Quindi
arrivavo a scuola, io ero in prima liceo
e andavo da quelli del quarto, quinto anno, ovviamente molto più grandi, li
offendevo e mi facevo picchiare. Ero bravo in questo. Comunque reagivo ad un’
offesa, oppure loro iniziavano a picchiarmi e io rispondevo. Non partivo mai
per primo: c’è una sorta di regola. E quello era il mio sfogo e comunque quella
maschera era così forte che non sono mai riuscito a parlare con qualcuno di me, di quello che ero io
realmente, di come vedevo la vita veramente; forse qualche volta, un po’, con i
miei genitori. Poi frequentai l’accademia di belle arti, ho incominciato a
lavorare. Ho iniziato già dal terzo anno perché vedevo quelli più grandi che uscivano
dall’accademia e poi andavano a fare i lavapiatti e tutti quei lavori che non
c’entravano niente con quello per cui avevano studiato e allora io mi sono
detto forse è meglio che cerchi qualcosa subito. E allora del terzo anno ho
incominciato a lavorare in una agenzia di comunicazione a Milano. Per cui,
quando ho finito l’accademia, al quarto anno diedi quattro esami e la tesi
nella stessa settimana, perché volevo finire in fretta e se non superavo quegli
esami non potevo dare la tesi. Però sono uscito bene, 110 e lode. E’ andata
benissimo e ho iniziato a lavorare nel campo della comunicazione, prima come
grafico poi è arrivata la tecnologia e il web anche in Italia, per cui mi sono
avvicinato e feci i primi siti in html. Tutta la parte mediale si stava
sviluppando, quindi anche i CD. Tutto ciò che era innovativo io lo volevo
seguire. Ed è stato per me, quando ci penso, fantastico perché io ero un
selvaggio, un analfabeta, non sapevo né leggere né scrivere e non sapevo cos’era
la tecnologia e, invece, mi sono scoperto bravissimo nel fare comunicazione,
nell’utilizzare la tecnologia più avanzata di quel periodo e anche di questo. E
mi sembrava stranissimo: io che insegno agli altri come comunicare con tutti
questi mezzi tecnologici. Poi ho conosciuto il video e mi sono innamorato del
video. Ho fatto tutta la gavetta: non volevo fare subito l’assistente alla
regia, volevo proprio tirare i cavi, conoscere, capire, sporcarmi le mani
perché volevo sapere tutto di quel mondo lì, che mi piaceva tantissimo, perché
secondo me era l’espressione della realtà e quindi io con il video posso trasmettere
quelle emozioni che l’altra persona mi dà: gli occhi, il sorriso, come si muove
e potevo anche creare delle immagini; potevo dare dei messaggi che magari a
parole non riuscivo a dare o a dire, e quindi mi piaceva tantissimo.
Dopo tre anni mi sposai, a venticinque anni, ed ebbi subito un
figlio. Ovviamente il discorso affettivo per me era molto importante, perché
era quello che mi era mancato nei primi anni. Una volta ricevuto dai genitori,
e anche donato da parte mia, l’affetto, lo cercavo dalle altre parti; ovviamente
ero molto legato alle ragazze e quindi mi innamoravo subito ma dopo due mesi
l’innamoramento passava e quindi cercavo questo innamoramento costantemente. Ho
avuto varie esperienze.
Poi io mi ricordo che in quinta elementare andammo ad Assisi a fare una gita.
C’era anche mio padre che mi aveva accompagnato con la scuola e conobbi San
Francesco. Ovviamente me ne sono innamorato subito: il suo legame con la natura,
lui che parlava con i passeri, gli uccellini, eccetera, eccetera. Per me era
diventato il santo della mia vita. Io facevo ancora la pipì a letto in quinta
elementare e quindi alla sera, in albergo, mio padre mi chiamò per mettermi il
pannolone. Io ero insieme ai miei compagni , figurati che vergogna!!! Per cui
incominciammo a discutere: io che non lo volevo e lui a dirmi che se poi mi
bagnavo era peggio. Ce l’ho fatta a convincerlo. Vado a letto: “Stai sicuro che non la farò” e prego San Francesco: “Ti prego non farmi fare
la pipì, se mi ascolti io mi farò frate”. E questo per me è stato un voto,
un voto a cui ho creduto fortemente negli anni successivi e anche al liceo
quando ho iniziato a frequentare le ragazze. E ho detto: “Faccio qualche esperienza ma stai sicuro - ogni tanto gli parlavo - che
manterrò l’ impegno”. Arrivato all’accademia si rese ancora più evidente
che non era quella la mia strada per cui gli dissi: ”Guarda, va bene, mi spiace, non mantengo la parola però stai sicuro che
il primo figlio lo chiamerò come te”. Tant’ è che il mio primo figlio si
chiama Francesco, gli ho donato il suo nome, e poi ne ho altri due.
Arrivò la proposta, verso i trentuno/trentadue anni, della scrittura
del libro da parte di Marcello Foa, perché il
Giornale era un mio cliente: io avevo un’agenzia di comunicazione. Inizialmente
dissi di no, poi capii che in realtà la scrittura del libro mi poteva servire.
Per cui contro tutto e tutti, perché la mia ex moglie non era d’accordo per
altre ragioni ed era molto timida e riservata. Per me era importante: dovevo
farlo e quindi mi misi a scrivere alla sera tutti ricordi, partendo da mia
mamma, dalle avventure mie. Ed è stato difficile non tanto perché i ricordi mi
facevano male: è stato difficile perché nello scrivere il libro mi resi conto
che non ero più così, non ero più quel bambino. Non avevo più quello sguardo. Quella
maschera, che vi avevo detto avevo messo alle elementari, era diventata talmente
forte che io ero un milanese qualunque. Un milanese che aveva una società, che
lavorava, a cui interessava il lavoro e basta. Capivo che le amicizie erano solamente legate solo al fatto che io potevo
dare qualcosa agli altri: il lavoro, le uscite, i soldi, eccetera. Amicizie per
interesse. Non è che l’amicizia non mi interessasse. E quando ho incominciato a
scrivere il libro ho capito che ero diventato un’altra persona. Quella maschera
era diventata così spessa che aveva nascosto quell’io a cui ero riuscito ad
arrivare nella profondità del mio cuore. Per cui, capitolo dopo capitolo, era
un po’ come se quell’io stesse sgretolando pian piano quella maschera. La stava rosicchiando via e questo
mi faceva male perché provavo ad essere me stesso in questa società ed era difficile.
Finito di scrivere il libro - mi facevo chiamare Antonio prima: era un nome più
facile da pronunciare. Manuel mi dava fastidio, Antonio era più facile - tornai
a farmi chiamare Manuèl. Manuèl mi identificava: non è solo un nome, identifica
quello che sono io, cioè il cileno, quello che ha avuto quell’esperienza di
vita e quell’esperienza gli ha permesso di guardare alla vita con occhi diversi
da tutti, con gli occhi della bellezza, costantemente davanti a me e scelsi di
non accettare più compromessi, di essere me stesso anche in questo tipo di
società, dove la bellezza viene nascosta, ci sono apparenze. Piuttosto vivo da
solo, non mi interessa, piuttosto di vivere un rapporto falso con gli altri sto
da solo. E questo l’ho riportato su tutto il lavoro mio, su tutta la mia vita e
quindi anche il lavoro. Se faccio un video lo faccio sempre con un messaggio
dentro: dietro ad ogni montaggio c’è sempre un messaggio di bellezza. Nessun
compromesso.
Poi, grazie al libro, ho conosciuto anche le associazioni dei genitori adottivi e ho iniziato a girare in Italia e ho conosciuto una realtà che non mi apparteneva, quella associativa, e non capivo come mai dei genitori dovevano mettersi insieme per creare un mondo parallelo al mio: io sono figlio, non un figlio adottivo; perché loro devono dirmi che io sono un figlio adottivo, perché loro si chiamano genitori adottivi e non genitori e basta, sono dei genitori. E quindi inizialmente mi dava fastidio la presenza di queste associazioni e quando la prima volta andai da loro a Bologna, fu nel 2012, avevo davanti a me una platea di 200 /250 persone, tutte un po’ con quest’aria… L’aria si sente, la percepivo benissimo: percepivo questa sofferenza dentro, questa tristezza di fondo, e non riuscivo a capire come mai. Per me l’adozione è bellezza: io sono figlio, l’adozione è stata una cosa che mi ha fatto diventare figlio, punto. E poi rimane lì, poi vivo da figlio: "Perché dovrei vivere diversamente?". Quindi andai a cercare su internet gli incontri delle associazioni. Incontri per i problemi del figlio, figlio adottivo di qua, il figlio adottivo di là…mi dava fastidio. Però dovevo comunque conoscere e capire il perché di questo e quindi dissi di sì a tutti: a tutti quelli che mi invitavano dicevo di sì. Facevo sei, sette presentazioni al mese in tutt’Italia e ho iniziato a capire un po’ i genitori come si sentivano, perché e ad analizzare questo loro modo di essere. Poi ho iniziato a conoscere di conseguenza i ragazzi e anche lì vedevo che il loro modo di essere, qui, era a volte molto diverso dal mio; li vedevo un po’ in difficoltà con se stessi e con la vita in generale. Per cui anche lì ho cercato di capire sempre di più. Invece di giudicarmi ho iniziato a cercare di capire, cercato dov’era questo malessere e questa ricerca durò dal 2012 fino a due anni fa, fino al 2018: sei anni di ricerca che ho fatto in tutt’Italia dicendo sì a tutti. Ogni convegno, ogni volta che mi invitavano andavo: da Trieste a Palermo. Dopo di che, una volta capito, mi sono detto qua c’è bisogno di fare qualcosa e perché noi figli non stiamo dando una mano né ai genitori né agli altri: io li chiamo fratelli in adozione.
Perché tra di noi fratelli di
adozione non ci aiutiamo grazie alla nostra esperienza. E così ho incominciato
ad aiutare una ragazza che mi aveva chiesto una mano. Io come regista cercavo
di capire attraverso le interviste. Grazie a queste interviste mi chiamò una
ragazza di Roma che mi ha chiesto un aiuto a starle accanto nella sua
difficoltà, anche operative, oggettive: le servivano dei documenti, perché era
stata adottata e dopo un anno abbandonata dai suoi genitori, per cui anche a
livello burocratico era un po’ un macello: non è italiana, ma per il Cile è
italiana; ha un documento italiano ma in realtà è straniera: un vero macello. E
quindi mi sono informato su di lei e tutti mi dicevano: “No, quella lasciala stare, perché è una borderline, ti tira matto,
non puoi, vai a infilarti in una situazione troppo difficile”. Quindi
inizialmente un po’ mi spaventai. Era l’inizio dell’estate, però questa
domanda, questo grido d’aiuto mi era dentro: come facevo io a decidere di
aiutare le persone se poi non aiuto questa ragazza! Per cui ho iniziato ad
aiutarla e lei è stata la ragione per cui poi ho fondato Anfad. Perché ho detto:
ce l’ho fatta, sono riuscito e devo creare insieme ad altri qualcosa che aiuti un po’
tutti, in Italia, sia come supporto psicologico sia a livello pratico: "Ti serve
una casa?, un lavoro?". Perché se poi tu, pensavo,
sei a posto a livello sociale, la parte terapeutica la si può seguire meglio,
con più facilità. Per cui così è stato. Anfad è nata quasi due anni fa, a
febbraio, ed è stata una bella esperienza. Sta crescendo sempre di più, sempre con
progetti insieme ai ragazzi. Ogni tanto ci si ritrova anche con i ragazzi adulti,
dai vent'anni in su, a Milano facciamo un incontro al mese con loro; dove c’è,
sì, la parte di confronto ma c’è proprio il dirsi che quella maschera, di cui
vi parlavo e che tutti i ragazzi hanno, tra di noi non c’è, perché io so che
quello che tu hai passato l’ho passato anch’io; il dolore che senti lo sento
anch’io; l’esperienza che tu hai vissuto l’abbiamo vissuta quasi tutta anche
noi: chi con l’abbandono, chi con un’esperienza di morte come la mia, chi per
altre situazioni, ma il sentimento di dolore
alla fine è sempre lo stesso. Quindi puoi gettare via la maschera con noi e
viene naturale in un confronto perché tu puoi essere te stesso davanti a me, e
questo è. Poi ci sono altri progetti che stanno nascendo e anche questi a
livello nazionale per cui faremo grandi cose!